Il linguaggio non è solo un riferirsi a cose ed eventi. C'è sempre qualcosa di più, qualcosa di inventivo, e dunque di eccessivo. E tuttavia, per sommo cruccio dei filosofi, il reale si sottrae al linguaggio, ritirandosi nei suoi abbissi, sicché la parola al contempo eccede la cosa e la fallisce. Uno dei vaniloqui più smodati è quello amoroso, in cui inventiamo di tutto e allo stesso tempo manchiamo miseramente l'oggetto, come già scrisse Barthes nei suoi celebri frammenti.
Ma che succede se la "cosa" del linguaggio amoroso è proprio una cosa cioè un oggetto costruito dagli esseri umani, come il sistema operativo di un computer? Da qui parte il film Her. La vicenda è quella di un uomo che si innamora di un'intelligenza artificiale invero assai sexy, e (qui sta il bello) di quest'ultima che s'innamora di lui.
Ora, che ci si possa innamorare di un racconto è cosa ben nota da tempo. Nella Mandragola, Callimaco si innamora di Lucrezia per averne sentito dire, e siamo nel '500. Ma per far sì che il racconto (badate: non il suo oggetto) ricambi il sentimento, bisogna ricorrere alle arti della science fiction.
Siamo in un futuro in cui la distanza tra la parola e la concretezza dei sentimenti umani è ormai divenuta abissale. Il protagonista è uno che scrive lettere intime per conto terzi. Mandare una lettera d'amore o d'amicizia è in quel futuro un gesto posticcio come farsi una foto selfie, e la gente affida il servizio a professionisti del settore, tra cui appunto il nostro eroe. Il quale lenisce la sua solitudine stordita e straniata (il suo matrimonio è finito da poco) con incontri grottescamente virtuali, o virtualmente grotteschi. Finché un bel giorno installa un sistema operativo super-intelligente (impara dall'esperienza, chapeau ai consulenti del soggettista) che gli si appalesa con voce suadente di donna, lo accudisce senza manipolarlo, lo capisce senza giudicarlo, gli fa mille moine, e infine si innamora di lui. Fin qui, potrebbe sembrare la versione glamour di Io e Caterina, filmetto di Alberto Sordi sull'immaginario maschile nell'Italia di Olivetti, un cui una robot si innamora del suo proprietario. Ma il film di Spike Jonze è altra cosa: vuole farci entrare nell'essenza del discorso amoroso, svelarne con un paradosso il metafisico mistero, quello che l'Ing. Melotti di Alberto Sordi avrebbe liquidato con una battuta di romanesco cinismo.
L'essere umano inviluppa la sessualità in una complessa trama di atti linguistici, che partono dalle pulsioni concrete, e attraverso raffigurazioni, promesse e giuramenti, istituiscono forme sociali. Il matrimonio, ci insegnano i filosofi, è l'oggetto sociale (dunque linguistico) per eccellenza: il fatidico "si", scaturito dai sentimenti (così almeno nelle nostre culture) istituisce un ordine materiale, tanto che alla fine bisognerà pagare gli alimenti.
Nel fiml accade che l'inviluppo linguistico amoroso si fa esso stesso realtà attraverso un'opera di ingegno, una mega-meta intelligenza artificiale, concrezione della logica (dunque del Logos), che ricostruisce (o così pare) la realtà spazio-temporale dell'emozione e del sentimento. La vexata quaestio del rapporto mente-corpo è totalmente invertita: il problema non è quello di capire come una mente possa scaturire da un corpo, ma come un corpo possa scaturire da una mente.
Dentro questo calembour filosofico di sapore kurzweiliano si colloca una vicenda romantica abbastanza ordinaria: l'insicurezza, il controllo dell'altro, eccetera eccetera. Ottima la battuta della ex moglie del nostro eroe, rivolta alla cameriera del ristorante dove i due si incontrano per firmare il divorzio, e lui confessa il suo amore per un sistema operativo: per una vita m'ha dato il Prozac, e ora si è innamorato del suo laptop.