La commissione parlamentare per i diritti in internet è al lavoro sul tema delle notizie false (fake news, dette anche ‘bufale’) diffuse tramite la rete. Visto che non si tratta di un convegno di studi ma di una iniziativa politica, è lecito supporre che discuta anche nel merito degli interventi legislativi in corso. Si fa udire la voce di chi avverte della difficoltà della materia (De Biase), ma la cautela in tema di verità non è mai abbastanza, e il rischio che vengano approvate leggi pericolosamente restrittive è concreto.
Dire cosa sia la verità è notoriamente difficile, tanto che non pochi filosofi antichi e moderni hanno cercato di sbarazzarsi dell’intera nozione. Tuttavia, nel senso comune, l’esistenza di qualcosa che chiamiamo ‘verità’ sembra inoppugnabile. Aristotele canzonava i sofisti quando diceva che anch’essi, con tutto il loro relativismo, sarebbero fuggiti a gambe levate se qualcuno avesse gridato “al fuoco!”. La logica aristotelica fu proprio un discorso formale e realistico sulla verità. Tuttavia, nel senso comune, il concetto ha contorni sfumati e problematici, e i tentativi di ricondurlo integralmente alla logica si sono sempre rivelati quantomeno ardui.
In ogni caso, la verità è una proprietà linguistica: vera è una frase, sia formale, ad esempio scientifica, sia ordinaria. Quando diciamo che un fatto è vero, usiamo la parola in modo metonimico, cioè indiretto. In realtà, è il resoconto del fatto che è vero o falso. Il problema della verità inizia e finisce nel linguaggio: gli animali, non parlando, non possono mentire, e forse è anche per questo che si fanno generalmente benvolere.
I filosofi che ne riconoscono il valore hanno proposto molte e diverse nozioni di verità, più o meno ambiziose. Ma quando parliamo di ‘bufale’, ci riferiamo senza dubbio a quella più classicamente aristotelica, cioè la corrispondenza del detto al fatto. Cos’altro sarebbe il ‘fact-checking’ se non l’accertamento di questa corrispondenza? Tuttavia, anche tralasciando il problema della semantica linguistica, cioè del significato delle parole, non ci si può illudere che affibbiare ‘vero’ o ‘falso’ ad una frase possa risolvere il problema delle mistificazioni internettiane.
Vediamo un esempio. “La Presidente della Camera è a capo della Mafia” è falso, e non ci piove. “Penso che la Presidente della Camera sia a capo della Mafia” però potrebbe ben essere vero, ad esempio nel caso in cui lo dice sia paranoico. Ma visto che le frasi dichiarative che i privati cittadini scrivono sui ‘social’ sono di fatto espressione delle loro opinioni (se omettono di dire “io penso”, “io credo”, “io ritengo”, ecc, è solo per una questione di economia) le due frasi potrebbero essere giudicate, in molti contesti, equivalenti. Dunque abbiamo due frasi che veicolano lo stesso contenuto, una vera, l’altra falsa. In un sistema logico questo condurrebbe al dramma formale del paradosso. Nella vita di tutti i giorni, invece, siamo perfettamente in grado di dirimere questioni di questo tipo, e il fatto che le nostre parole generino di continuo sanabili paradossi mostra quanto sia difficile per la logica catturare l’essenza del linguaggio ordinario.
La logica moderna include espressioni come “io credo che…” o “io so che…” nel suo apparato formale, alla ricerca di un modo per ragionare su tutte quelle situazioni in cui il locutore assume un “atteggiamento” nei confronti di una proposizione, cioè di qualcosa che può essere vero o falso. Un risultato interessante è la possibilità di distinguere espressioni di conoscenza (epistemiche) da espressioni di opinione (doxastiche). Con le prime, chi parla si impegna a dire che le cose stanno esattamente nel modo in cui la proposizione dice: “so che X” vuol dire che nel mondo attuale succede proprio X. Con le seconde, no: “credo che X” ammette il caso che X non sia. Basta la distinzione tra conoscenza (episteme) e credenza (doxa) a salvare la capra della verità e il cavolo della libertà?
Purtroppo non è così. Da una parte, non ci si può far scudo della doxa dicendo semplicemente, magari con un disclaimer a piè di pagina, che quanto affermato potrebbe non essere vero. L’art. 59 del codice penale riconosce la fattispecie dell’ignoranza colposa: se uno non è sicuro di ciò che dice farebbe bene a informarsi, e può sempre opportunamente scegliere di tacere. Dall’altra, a parte le poche certezze che ci restituiscono i sensi (ad es. ora, qui, fa freddo), ciò che sappiamo lo sappiamo da altri mediante l’interpretazione di atti linguistici, cosa notoriamente irta di problemi di vario tipo. Un grado di incertezza, dunque, c’è sempre. La logica “soggettiva”, di recente invenzione, può solo quantificare questa incertezza, non eliminarla. E che, allora dovremmo tacere su tutto ciò che non è una nostra esperienza diretta?
Siamo dunque costretti a giudicare le situazioni caso per caso, alla luce d’una lanterna che assomiglia a quella con cui Diogene cercava l’Uomo (espressione ahimè sessista). La mia personale opinione (ma per carità, potrei sbagliare) è che il codice penale e la magistratura abbiano già tutti gli strumenti per reprimere le intenzioni criminose. Il resto è una questione di civiltà che nessuna legge potrà surrogare.