La prova algoritmica dell'(in)esistenza di Dio

La maggioranza degli esseri umani credono – o dicono – di possedere un’anima individuale e immortale. Un’essenza personale di origine divina, irriducibile ai processi fisici e perciò sottratta a ogni approccio materialistico e scientifico.

Questa idea si diffonde lungo una traiettoria storica che, passando per Zoroastro e Platone, arriva al tardo ebraismo, al cristianesimo e all’islam. Sommando cristiani, musulmani e – con le dovute semplificazioni – induisti, circa sei esseri umani su dieci sono oggi culturalmente addestrati a pensarsi come portatori di una scintilla divina e trascendente.

La maggioranza relativa di questi sono cristiani, e il loro orizzonte concettuale informa il dibattito pubblico occidentale. In gran parte dell’Oriente, invece, confuciani, taoisti e buddisti restano estranei all’idea di un’anima personale immortale, preferendo concepirsi come momenti transitori di un ordine più ampio. Qui da noi, una visione per certi versi simile, quella di Spinoza, fu condannata senza appello tanto dagli ebrei quanto dai cristiani.

È dunque singolare che, nel dibattito contemporaneo sull’intelligenza artificiale, ampiamente dominato dall’Occidente, la parola “anima” sia pressoché assente. Ma questo è d’altra parte comprensibile: se l’anima individuale fosse la condizione necessaria della coscienza umana, allora qualsiasi discussione sulla “coscienza” delle macchine sarebbe semplicemente inutile.

La discussione tra possibilisti e negazionisti della “coscienza” degli automi – o della “semantica” che ne è il presupposto – ruota immancabilmente attorno a emozioni, intenzioni, corporeità, insomma all’essere-nel-mondo. Secondo alcuni, questo esserci sarebbe fatalmente precluso alle macchine, mentre per altri la presenza degli automi potrebbe diventare funzionalmente equivalente a quella umana in un futuro neanche tanto remoto.

Chi nega che un automa possa ricostruire in sé qualcosa di equivalente ai nostri stati mentali fa spesso appello all’impossibilità di fatto di riprodurre algoritmicamente la complessità della biologia umana. Ma questo argomento ha una natura scivolosa: si presenta come empirico, dunque falsificabile, salvo poi rifugiarsi in una regressione indefinita. Basta modellare i neuroni? Oppure occorre scendere al livello di ogni singola sinapsi, delle molecole, dei canali ionici, delle fluttuazioni quantistiche? Basta un sensore di temperatura per consentire alla macchina di “capire veramente” cosa significhi freddo o caldo, oppure serve proprio l’epitelio?

Questa strategia negazionista consente di respingere ogni avanzamento degli automi verso qualcosa di simile a una “coscienza” senza mai esplicitare il presupposto decisivo. Se la coscienza fosse davvero una proprietà emergente della complessità biologica umana, nulla vieterebbe in linea di principio una sua realizzazione artificiale. Se invece ci fosse qualcosa di più o di diverso, allora nessun hardware upgrade potrebbe mai colmare la distanza. In ogni caso, questa disputa empirica serve egregiamente lo scopo di evitare la questione ontologica di fondo: abbiamo un’anima di natura divina, sì o no?

Delle due l’una: o accettiamo il postulato dell’anima divina, oppure dobbiamo ammettere che si tratti di una congettura, e dunque di qualcosa che, almeno teoricamente, dovrebbe consentire una dimostrazione o una confutazione. Il postulato ha un indubbio vantaggio: chiude la questione in modo dogmatico e la rende impermeabile a ogni prova. Ma proprio per questo vanifica qualsiasi dibattito sull’intelligenza artificiale, facendolo annegare nelle sabbie mobili della petizione di principio.

Scartata questa ipotesi, resta la congettura. Certo: potrebbe essere espressa in un linguaggio indecidibile, e in tal caso resterebbe nell’ambito della fede. Ma potrebbe invece essere formulata in termini scientifici, ed è qui che la situazione diventerebbe interessante. I recenti avanzamenti dell’AI sembrano infatti offrire, per la prima volta, un terreno concreto su cui proporre — o confutare — prove sperimentali dell’esistenza dell’anima e, con essa, di Dio. Letta in questa chiave, anche la grande attenzione del Vaticano per le tecnologie cognitive appare meno enigmatica.

Chi è culturalmente addestrato all’idea dell’anima individuale può trovarsi in una posizione ambigua, se non proprio in una sovrapposizione di stati: dichiararne pubblicamente il carattere ipotetico, continuando però a viverla come un assioma psicologico intimo e non negoziabile, cioè una fede. Il rischio in tal caso è quello di alimentare una discussione che si presenta come aperta e razionale, ma che in realtà resta vincolata a una tacita e ingombrante premessa.

Siamo disposti ad accettare l’AI come banco di prova dell’anima, e dunque di Dio? Se sì — e si tratta di una libera scelta — allora dobbiamo essere disposti anche a negoziare cosa accettare come evidenza empirica, fissando soglie e criteri, rinunciando così alla regressione indefinita dei “sì, ma…. Senza questo accordo preliminare, nessuna prova potrà mai essere accettata come tale.

Se invece la risposta è no, allora bisogna dirlo apertamente: qualunque cosa un automa faccia o dica, un’anima — o qualcosa di funzionalmente simile — non l’avrà mai. In questo caso, la discussione sulla coscienza artificiale smette di essere una questione scientifica: è una questione di fede.