Il verbo essere è all'origine dell'ontologia, almeno da un punto di vista lessicale (in greco antico, 'ontos' ne è una forma). Quando Aristotele inizia a parlare di ontologia, lo fa in effetti descrivendo gli usi di questo verbo. Nella sua veste di 'copula', la funzione del verbo essere è quella di legare un predicato al suo argomento, come in 'la mela è marcia'; ma 'essere' può anche esprimere l'appartenenza di un oggetto ad un insieme ('la tua mela è tra quelle'), o l'inclusione tra insiemi ('la mela è un frutto') o ancora la pura e semplice esistenza: 'la mela c'è'. Insomma questo verbo fornisce gran parte del macchinario linguistico con cui si costruiscono descrizioni del mondo.
In un libro recente, il linguista Andrea Moro propone una 'Breve storia del verbo essere'. La narrazione (non proprio breve, per la verità) parte dalla famosa invettiva di Russell contro questo verbo, accusato di aver minato alla base, con la sua polisemia, l'armonia tra linguaggio e logica. Anche dal punto di vista sintattico, continua Moro, il verbo essere turba le geometrie dei linguisti generativisti. Il libro finisce di essere narrazione scientifica, per divenire un vero e proprio saggio (anche un po' ostico per i non addetti), quando Moro cerca di appianare le tensioni sintattiche attorno al verbo, avanzando una certa sua teoria all'interno del paradigma chomskiano.
Nella prima parte, quella storica, il libro è molto godibile; nella seconda, per uno come me che ha in spregio la sintassi generativista, è esecrabile. Il fatto di voler riportare il verbo ontologico dentro la gabbia della regolarità sintattica è un oltraggio all'essere (non il verbo, proprio l'essere). E' già abbastanza strano che l'idea di Chomsky secondo la quale le nostre frasi sono quelle che sono in virtù di qualche specifica circuiteria sintattica mentale non sia ancora stata abbandonata, ma che non si vogliano fare eccezioni neanche per il verbo sul quale si impernia la nostra visione del mondo è proprio amaro.