La logica doxastica studia la 'credenza', cioè il modo in cui gli 'agenti' (ad esempio esseri umani o automi) si pongono nei confronti di proposizioni del tipo: 'ora a Chicago piove'. A differenza della più nota logica epistemica, che ambisce a modellare la conoscenza, la logica doxastica non richiede che, per ogni agente a e proposizione P, se a crede P allora P debba essere vera. In effetti, da un punto di vista doxastico, non è cruciale sapere qual è, tra i 'mondi possibili' (i possibili stati di cose), il 'mondo reale', quello cioè in cui a ciascuna proposizione è assegnata la 'verità vera'.
Questa debolezza rende la logica doxastica molto umana, perché noi, in effetti, del 'mondo reale' sappiamo assai poco (piove ora a Chicago? Chissà!). Tuttavia, anche nella sua umana debolezza, la logica doxastica ci propone qualche utile norma. Ad esempio, non è possibile che un agente creda P e non P allo stesso tempo, cosa meno ovvia di quello che si pensi, perché richiede agli agenti la capacità di ragionare.
Nella ricerca contemporanea, uno sviluppo molto interessante consiste all'applicazione della logica doxastica ai processi di comunicazione (chi non disdegna i formalismi può dare un'occhiata a questa presentazione). In che modo e a quali condizioni una proposizione che viene riferita come vera all'agente a dall'agente a' può essere dal primo recepita? E cosa dovrà egli pensare nel caso in cui tale proposizione entri in contrasto con una propria credenza pregressa? O con una credenza di un terzo agente a''? In questi casi, si può fare affidamento a qualche criterio di 'reputazione', grazie al quale a preferirà le opinioni dell'uno rispetto a quelle dell'altro, o anche alle proprie stesse credenze.
In una comunità di agenti doxastici la reputazione è importante. Lo si vede anche nella realtà: i giornalisti ad esempio attribuiscono a sé stessi la proprietà di essere informatori credibili, e per questo motivo, in Italia, hanno anche stabilito un albo professionale. Più in generale, in molte comunità, il ceto intellettuale tende a configurarsi come gruppo dotato di una 'credibilità a priori'. Ma, a parte le pretese più o meno giustificate di certi di agenti, gli ordinamenti doxastici dovranno plausibilmente essere dinamici, cioè soggetti a revisioni, ad esempio nel caso in cui qualche agente, sia pure blasonato, si riveli fallace o inconsistente. La comunicazione tra agenti alla pari che caratterizza le reti sociali di oggi esemplifica (e amplifica) questo tipo di dinamiche.
Il fissarsi di una credenza come 'indefettibile', di un agente come 'infallibile', o di un ordinamento come vera e propria 'gerarchia', richiede il ricorso ad una nozione di 'verità vera' che, nella realtà umana, è largamente inattingibile. Dunque, in generale, ci muoviamo in un mondo senza 'punti fissi', dove, in una continua indecisione, costruiamo 'cento visioni e revisioni'. Nell'atto di accogliere (o respingere) nelle nostre credenze una proposizione che ci è comunicata, è sempre in opera una libera scelta, come d'altronde, insegnano gli esistenzialisti, in qualsiasi atto della coscienza.
La dinamica a cui ci sottopone l'esercizio della credenza è stressante, l'indecisione è sempre in opera, e in tutto ciò insorge quella 'irritazione del dubbio', di cui parlava Peirce. Nella 'lotta per lo stabilirsi della credenza' combattuta quotidianamente dagli umani, avvertiva il logico americano, la 'verità vera' ha poca importanza: l'obiettivo infatti è solo quello di sopprimere l'incertezza. Il desiderio della fede (in qualsiasi genere di cosa), come 'punto fisso doxastico' in grado di sottrarci all'indecisione è la debolezza più umana che ci sia.