Parole e realtà, il caso di “femminicidio”

Una parola nasce quando qualcuno sente il bisogno di estrarre una nuova forma dallo spazio infinito del dicibile, ed altri riconoscono quella forma, e gli danno un valore nei commerci linguistici. Nessun dato di realtà può imporre un nuovo vocabolo al corpo sociale, fatto salvo che, come osservano i "realisti negativi", non tutto il significabile sia ugualmente commerciabile (difficile servirsi di una parola che si riferisca, ad esempio, all'insieme formato dalle cime delle montagne e i nasi dei professori di latino). Di conseguenza, non ha senso giustificare la nascita di una parola con l'appello a una cogente realtà, o, per converso, contestarne il valore semantico sulla base di statistiche o esperimenti. Una parola nasce quando c'è bisogno di usarla, e questo è tutto. Eppure, il neologismo femminicidio si è trovato esattamente al centro di una discussione di questo tipo.

Che bisogno c'è di introdurre il vocabolo – hanno suggerito alcuni sedicenti statistici – se, dati alla mano, le violenze contro le donne non sarebbero in aumento? Leggendo bene i dati di realtà, esse invece sono in aumento – si è ribattuto dal fronte opposto – perciò l'uso della parola è giustificato. Orbene, per come funziona il linguaggio, il numero di vittime di violenza di sesso femminile non potrebbe né imporre né impedire l'uso di femminicidio. Dunque, alfine, tutta la discussione, messa in questi termini, appare totalmente priva di senso.

 

Una tipologia di omicidi (dove la radice homo reca l'usuale carico di sessistica meronimia), e cioè quelli commessi da una varia (dis)umanità maschile nel momento in cui si sente defraudata del presunto diritto al possesso della persona femminile, ha oggi un nome. Cosa si vuol manifestare col disagio nei confronti di questo nome? La forma dicibile che esso porta in rilievo mostra qualcosa di scomodo, che si preferirebbe restasse negli scantinati della cattiva coscienza? I più cretini obiettano che il femminicidio altro non sarebbe che un omicidio tra i tanti, e che se accettiamo la parola allora dovremmo anche dire andricidio per parlare dell'uccisione di un uomo da parte della sua compagna. Ma questo sarebbe come obiettare che scapolo significa solo maschio adulto mai sposato, e dunque andrebbe espunto dal vocabolario. Se si ragionasse così, potremmo andare avanti a buttare la maggior parte delle migliaia di parole che usiamo tutti i giorni.

Se la realtà non si imprime banalmente sul linguaggio, il linguaggio invece fonda la realtà degli oggetti sociali, come ad esempio le leggi. La sintesi concettuale veicolata da una parola, circolando nella società, scava un suo alveo nel senso comune, come un fiume carsico. Arriva poi un giorno in cui il fiume sfocia nella pianura, e scorre sotto gli occhi di tutti. Per quanto riguarda femminicidio, quel giorno è arrivato in questo Agosto ormai agli sgoccioli, con una legge che caratterizza e punisce una specifica violenza di genere. E c'è da chiedersi se, senza nominare questa violenza, implacabilmente e instancabilmente, si potrebbe mai arrivare ad estirparla.

 

 

 

 

 

  • guido |

    Cara Fru, non solo c’è una parola per tutto, ma ci sono parole anche per quello che non c’è. La significazione infatti non è una funzione totale, né biunivoca, e dunque lascia molto spazio alla creatività (anche quella maligna). Non so se questo può giustificare il tuo iper-costruttivismo e la tua fede nel potere della parola, però mi sembra che quello che scrivi sia molto coerente. E si, femmini- somiglia a un morfema lessicale 🙂

  • La Fru |

    Riguardo alla commerciabilità della lingua, credo che a volte sia questione di farsi venire in mente il termine giusto. Per indicare l’insieme formato dalle cime delle montagne potresti magari ricorrere al prestito “skyline” –attacarci “montana” se ti pare, trentina, se ti piace– giacché la skyline, contrariamente a quanto pensavo erroneamente prima di approdare a una certa maturità linguistica, non si riferisce solo al profilo newyorchese, con i pinnacoli gratta-cielo e le luci della città che non dorme mai, ma a qualsiasi profilo di panorama che scrive l’orizzonte. Quanto ai nasi dei professori di latino, lasciami qualche momento per rifletterci 🙂
    Mi è sempre piaciuto pensare che ci sia una parola per tutto, come il tempo nell’Ecclesiaste. Forse perché così riesco a scacciare l’ombra dall’indicibile e a far trionfare la parola, celestialmente lucifera. Amen.
    Una parola per tutto, dunque –femminicidio. Sospinta da curiosità etimologica, ho vagato per la rete e scoperto, grazie a Barbara Spinelli, che il termine fu utilizzato per la prima volta nel 1992, che “nacque per indicare gli omicidi della donna ‘in quanto donna’” — http://27esimaora.corriere.it/articolo/perche-si-chiama-femminicidio-2/.
    A tante donne, intellettuali e non, “femminicidio” risulta indigesto per via del “femmina” in testa, un prefisso (o morfema lessicale? Tu sei l’esperto :-)) che mortificherebbe la donna evidenziandone unicamente lo stato biologico. In “femmina” vi si ravvede un che di animale, così come in “maschio”. Convintissima del valore e del potere della parola, nonché scomodamente ipersensibile verso le sue sfumature, non mi sono tuttavia mai scomposta davanti alla millenaria battaglia linguistica di femmina-vs-maschio. Il problema non dovrebbe nascere da “femmina” morfema lessicale –ci si è mai lamentati di “femminile, “femminilità”? Il problema nasce –ancora!– dall’atto di nominare, nello specifico, quel reato –la violenza verso una donna. Quando noi nominiamo un oggetto o un atto, lo rendiamo reale, lo fissiamo visibilmente in uno spazio e in un tempo. Dire “femminicidio”, non degrada, né ghettizza o discrimina. Semplicemente narra, e quindi invera, una realtà –con tutto quel carico di orrore che quella realtà porta con sé. Quest’operazione, cioè la rivelazione, dà fastidio. Ancora!
    E allora si fanno le pulci alla lingua.
    E’ proprio vero che in Italia curiamo il raffreddore agli appestati. 🙁

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