Metafisica della vanità

Come la maggior parte dei padri di figlie bellissime, cerco di esercitare un’azione repressiva nei confronti della vanità femminile che si manifesta ahimè in età assai precoce. Insomma faccio un po’ il bacchettone. Il problema però è che le mie due figlie sono anche maledettamente scaltre. Allora cerco di confonderle con la metafisica. Ma è incredibile come le bambine di oggi riescano a metterti nel sacco usando i tuoi stessi ragionamenti.

Avevo trovato un criterio formale per caratterizzare la frivolezza: è frivolo quell’oggetto che possiede almeno una parte che non contribuisce alla sua funzionalità (ad esempio le perline sui jeans), e forte di questa presunta oggettività da qualche tempo andavo facendo concioni moralistiche. Ma ieri, a seguito di alcune mie osservazioni sul suo vestiario, la piccola (9 anni) mi ha detto: la funzione di questa maglietta coi volant è proprio quella di essere frivola. Ho annaspato per qualche minuto cercando di argomentare che la frivolezza non può essere una funzionalità, ma mi è stato fatto garbatamente notare che per sostenere questa tesi avrei dovuto far ricorso ad un giudizio di valore del tutto soggettivo. Come se non bastasse, non potendo escludere la frivolezza come funzionalità, il mio bel criterio formale è franato nei paradossi dell’autoreferenza: in un oggetto essenzialmente frivolo, le parti che non contribuiscono alla frivolezza determinerebbero la frivolezza, il che, è ovvio, non può essere. E qui, sotto lo sguardo tronfio di mia figlia, si è consumata la mia più completa debacle.