Ho letto un bel libretto di Elena Paganini sul problema logico-filosofico-linguistico della vaghezza (La vaghezza, Carocci, 10€). Nel linguaggio, la vaghezza non consiste nel fatto che una parola può significare molte cose (questa si chiama polisemia) ma nel fatto che le singole accezioni di una parola possono essere usate in modo sfumato, discutibile, soggettivo. Prendete l’aggettivo "alto": io sono alto? Tra i pigmei si direbbe di sì, tra i watussi probabilmente no. E sono "calvo"? Rispetto a Claudio Bisio forse no, ma mettetemi vicino a quel ragazzino dei Tokyo Hotel. E quanti capelli deve farsi impiantare un calvo, che so, Berlusconi, per non essere più calvo? Esiste quel capello grazie al quale Berlusconi è passato dalla calvizie alla non calvizie?
La logica formale ingaggia con la vaghezza una lotta disperata. Frege, che ne fu il padre (della logica, intendo), avvertì di stare alla larga dai predicati vaghi del linguaggio naturale. Ma i filosofi analitici non lo ascoltarono, e non poterono quindi evitare il match. Ancora oggi ci sono fior di cervelli che si consumano nel dare alla vaghezza ogni sorta di veste formale. Non sto ad elencare qui tutti i tentativi storici e attuali per riportare la vaghezza nel perimetro di qualche teorema, per questo c’è il libro della Paganini. Dico solo che, per la disperazione, si è arrivati a teorizzare che la vaghezza non origina nel linguaggio, ma nel mondo (si parla allora di vaghezza ontologica), come se al mio cuoio capelluto importasse qualcosa del mio celiare sull’essere calvo o meno.
E’ chiaro che la vaghezza è un fatto del linguaggio, nel mondo si può semmai parlare di continui, di gradienti, di campi. L’entità del mondo, il ‘committment’ ontologico, inizia dove inizia l’identità: "no entity without identity" diceva Quine, e un criterio di identità per "calvo" pare proprio che non ci sia, a dispetto del fatto che a Claudio Bisio l’epiteto non lo risparmia nessuno. Io credo che i logici sbaglino nel credere invece che la verità dei predicati vaghi esista, e la vaghezza sia nel fatto che noi non vi abbiamo completo accesso per nostri limiti conoscitivi, o nel fatto che tale verità abbia delle lacune. Il fatto invece è che quelle come "calvo" sono semplici parolette, motti che noi rivolgiamo a questo o a quello un po’ così, come ci viene. La vaghezza è nel fatto che noi quella verità (ma ha ancora senso chiamarla così?) la generiamo nel motteggiare. Aveva ragione Frege: che ci azzecca la logica con tutto questo?