L’ora della verità

Quid est veritas?

Quando Ponzio Pilato interrogò Gesù di Nazareth sulla verità, non attese la risposta. La domanda, comunque, non era banale, come dimostra il fatto che da tempo immemorabile i filosofi ne discutevano senza giungere a un accordo. Volendo semplificare, si può distinguere tra chi, come Parmenide, identificava la verità con l’essere stesso, e chi, come Platone e Aristotele, pur con differenze profonde, attribuiva al logos la capacità di orientare l’intelletto verso l’essenza delle cose. Ma vi era anche la vasta schiera di coloro, come Protagora con il suo relativismo, Pirrone con lo scetticismo radicale e Gorgia con il suo nichilismo epistemologico, che negavano una verità oggettiva: Protagora rimandandola al soggetto, Pirrone sospendendo ogni giudizio, e Gorgia arrivando a negare la possibilità stessa della conoscenza.

In un mondo attraversato dal desiderio di placare il dubbio, il caotico Pantheon greco-romano lasciò progressivamente spazio alle religioni monoteiste, tra cui il cristianesimo. Io sono la via, la verità e la vita, aveva annunciato Gesù (Giovanni 14:6). Si potrebbe vedere in questo passaggio una traccia dell’antico monismo, trasformatosi in una teologia narrata da un clero molto ben organizzato che diventerà infine egemone.

La vicenda della verità non era comunque conclusa. Se filosofia e la teologia avevano fornito differenti concezioni della verità – dall’aletheia parmenidea alla veritas cristiana – la discussione si riaccende con l’ingresso sulla scena del metodo scientifico. Con la rivoluzione scientifica, la verità non è più concepita come una rivelazione o un’intuizione dell’essere, ma come un processo di verifica empirica e falsificabilità. Da Galileo a Popper, la verità scientifica si configura come ipotesi sottoposta al vaglio dell’esperimento, che non è esperienza soggettiva, ma applicazione controllata e riproducibile di protocolli condivisi dalla comunità degli scienziati, cioè dal clero della dea ragione.

Ma la discussione sulla verità non si esaurisce neanche nel quadro della scienza. Con il pensiero del XX secolo, correnti come il neopragmatismo (da Dewey a Rorty) contestano di nuovo l’idea di una verità assoluta, sostenendo che essa è sempre situata e funzionale agli scopi umani. Le cose si complicano ulteriormente col nascere della cosiddetta infosfera, quando la ragione si trasferisce sulle reti sociali telematiche, e con l’intelligenza artificiale generativa, che produce linguaggio con una semantica tutta sua. Le tecnologie dell’informazione, che presidiano la socialità contemporanea, si trovano dunque immerse negli abissi del più grande problema filosofico, e ci si interroga sul ruolo che potranno giocare. Saranno strumenti per rafforzare la ricerca della verità, fornendo metodi più raffinati di analisi e verifica, oppure contribuiranno alla sua dissoluzione, alimentando bolle epistemiche e relativismi radicali?

Difficile dirlo. Ma almeno ci si può chiedere: cosa dovrebbe essere la verità, se ci fosse?

La verità è una proprietà delle proposizioni, cioè delle frasi dichiarative, come ad esempio “oggi c’è il sole”. Quindi, in definitiva, è una questione linguistica. Davanti ad una proposizione, il soggetto umano assume un atteggiamento: può esserne certo, ritenerlo in varia misura plausibile, o rifiutarlo del tutto. Il problema allora è quello di stabilire quale dovrebbe essere l’atteggiamento “corretto”, ammesso che ce ne sia uno.

Appare subito chiaro che la conta delle opinioni soggettive non è un criterio epistemico valido: la verità non si stabilisce per consenso, e l’appello alla communis opinio è ufficialmente considerato una fallacia argomentativa. Ma se non esiste una verità che emerge semplicemente dalle interazioni sociali paritarie, allora si deve riconoscere il ruolo cruciale di una dialettica virtuosa che contribuisca in modo sostanziale a definire su un piano di realtà il contorno degli atteggiamenti proposizionali dei soggetti. Questa però non dovrebbe essere appannaggio di un clero epistemico, cioè un’autorità dogmatica teologica o scientifica che sia, bensì di un sistema di competenze e pratiche condivise capaci di dare fondamento alle credenze soggettive.

Altrettanto chiaro è il fatto che le piattaforme sociali prodotte dall’industria statunitense siano ben lungi dall’aver favorito la nascita di un sistema del genere. D’altra parte, non era il loro scopo. È dunque venuto il momento di fare qualcosa di nuovo: l’Europa deve non solo riflettere, ma agire per costruire spazi digitali che favoriscano una dialettica virtuosa, investendo in infrastrutture digitali dal disegno innovativo. Un sistema di scambi e relazioni sociali fondato sulla trasparenza e sulla qualità dell’informazione sarebbe un’arma molto più efficace (e molto meno costosa) di mille cannoni.