Apologia

006_the_sea Tra il dire e il fare di mezzo il mare. Ma non si tratta di un oceano: è solo un braccio, uno stretto canale. Così stretto che la voce lo traversa, sicché, parlando da una sponda, dall’altra si può udire tutto. E quello che diciamo non serve solo a descrivere ciò che esiste sulla nostra sponda a quelli che si trovano al di là, ma consiglia, suggerisce, insinua, prega, comanda, promette, minaccia. Con la parola, insomma, facciamo molte cose, e cose molto concrete: cambiamo lo stato delle altrui conoscenze, induciamo sentimenti e credenze, causiamo azioni e reazioni. Non c’è mare che possa frenare la pervasiva efficacia della parola.

A conferma della sua concretezza, la nostra legislazione punisce alcuni tipi di abuso della parola, come le diffamazioni, le istigazioni, le apologie. E’ vero che la nostra Costituzione sancisce la libertà di parola, ma, per la Legge che la attua,  è anche vero che non si può dire proprio tutto. Ad esempio, l’apologia del fascismo è sanzionata da una legge del 1952 (la famosa legge Scelba), che fa riferimento al divieto di ricostituzione del partito fascista contenuto nelle norme transitorie della Costituzione.

L’interpretazione di quella legge dette a suo tempo non pochi grattacapi. All’inizio infatti essa causò qualche intemperanza: non solo sul saluto romano iniziarono a piovere rinvii a giudizio, ma un tale fu pure inquisito per essersi recato nel cimitero di Predappio con la camicia nera, cosa che, in un cimitero, può ben accadere. Interessante è il fatto che le apologie inquisite a quel tempo erano per lo più non verbali: si gesticolava, ci si vestiva, ma pochi evidentemente si azzardavano a parlare o peggio a scrivere. In ogni caso, i difensori degli apologeti adirono la Consulta, da cui giunse, nel 1958, uno storico pronunciamento: "l’apologia del fascismo, per assumere carattere di reato, deve consistere non in una difesa elogiativa, ma in una esaltazione tale da poter condurre alla riorganizzazione del partito fascista. Ciò significa che deve essere considerata non già in sé e per sé, ma in rapporto a quella riorganizzazione, che è vietata". Ora, un metafisico impertinente potrebbe domandare cosa si intenda con ‘riorganizzazione di un partito disciolto’: qual è il criterio di identità di un partito? I suoi membri? Il suo nome? Il suo statuto? Un partito disciolto si può in effetti ricostituire? Metafisica a parte, il reato di apologia fa riferimento a quella che certi linguisti chiamano ‘perlocuzione’: la facoltà del linguaggio di determinare eventi concreti, ancorché eventi sociali e dunque dai contorni vaghi. La cosa non è nuova, è dal tempo dei sofisti che si sa che il linguaggio non descrive: costruisce. Solo qualche ottuso logicista non lo capisce, o finge di non saperlo. Sicché, per parafrasare Goebbels (che qui viene a fagiuolo), si potrebbe dire: parla parla, qualcosa succederà. E dopo il gran parlare del Ventennio, dopo tanto roboante eloquio franato prima nel ridicolo, poi nella tragedia, infine nell’orrore, la legge Scelba stabilì di mettere a freno la lingua del fascista. Per ragioni non dissimili, ma con orientamenti e metodi diversi, in quegli anni molti cittadini statunitensi venivano perseguitati per il fatto di aver manifestato opinioni a favore del (o non contrarie al) comunismo. Brutti tempi, quelli, per la parola.Duce

Oggi la lingua del fascista gode di grande libertà. Non c’è angolo di strada da cui non incomba una croce celtica, non si invochi un ‘a noi!’, non rieda qualche vecchia roboante idiozia. Su facebook prospera indisturbato il popolatissimo gruppo di coloro che "si riconoscono nei valori del Fascismo e nella figura del DUCE", dove si dice chiaro e tondo che il fascismo è stata una bellissima cosa, non c’è nessun motivo per ripudiarlo, e anzi andrebbe proiettato nel futuro. Il fatto che tutto ciò  si possa dire a voce così alta, in barba a qualsiasi possibile interpretazione della legge e della sentenza della Corte Costituzionale, non è una cosa lieve e senza conseguenze. Il linguaggio produce, performa, agisce. Sfogliatelo, il libro delle faccette nere. Molte sono di giovani, poco più che bambini. I nonni non hanno raccontato loro della morte tra le steppe sovietiche e i deserti libici alla ricerca di un improbabile impero, e di come è la morte davvero, così diversa da quella dei loro fantasy, così diversa da quella con cui si baloccano dicendo ‘è bello morire per la patria’. Nessuno ha detto loro che gli uomini sono uguali, che non esiste la razza ariana e che se anche esistesse non sarebbe superiore a nessun altra razza. Ma in compenso qualcuno gli grida ‘boia chi molla!’ e loro stanno lì a ripeterlo come animaletti bisognosi, incantati da un grugnito incomprensibile ma capace chissà come di riempire il vuoto di senso che hanno dentro. Esistono valori che la nostra democrazia – perché è una democrazia, no? – vuole testimoniare a costoro attraverso la parola, quella pronunciata ma anche, a rigor di legge, quella tacitata?

  • Guido |

    Dino, un criterio non esiste, la libertà si applica anche all’interpretazione, è per questo tra l’altro che la semantica è una gatta così difficile da pelare. Ad esempio, appunto, nell’interpretare l’espressione ‘pelare una gatta’ come ‘risolvere un problema’ ci prendiamo una bella libertà!

  • Dino |

    Guido, non c’è dubbio che le parole possono agire, e con gli effetti più perversi, come negli esempi che hai riportato. Tuttavia vedo un aspetto problematico che mi piace condividere con te per sapere cosa ne pensi: gli effetti della parola non sono misurabili e dipendono soprattutto da chi le ascolta o legge. Se uso parole insultanti con un mio amico e questo giustamente non se la prende, le stesse parole possono ferire un’altra persona. Allora chi stabilisce cosa si può dire e cosa no, dal momento che non esiste un riscontro oggettivo negli effetti che il dire provoca? Oppure un tale criterio esiste, se si qual’è allora?

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