Nessuno, in fondo, ha dubbi sul fatto che qualcosa esista. Si tratta di intendersi su cosa popoli la realtà e su come ci relazioniamo a questo qualcosa. Non si tratta affatto di questioni superate, e benché i filosofi continuino a discuterne da diversi millenni (e ad alcuni di loro sia accaduto di cambiare più volte idea in proposito), non si tratta neanche di questioni oziose. Non per me, almeno, che infatti mi ci intrigo e mi ci compro libri, come il nuovo Bentornata realtà (a cura di Mario De Caro e Maurizio Ferraris, Einaudi 2012).
Secondo me buona parte della confusione sulla realtà è causata dal linguaggio. Noi usiamo parole formalmente e anche sostanzialmente uguali per riferirci alle cose più diverse. In molte ontologie, penso ad esempio a quella di Popper, si distinguono entità spazio-temporali (questa sedia), qualità (la forma di questa sedia), stati mentali (la mia percezione della forma di questa sedia), astrazioni sociali (la bellezza che attribuisco alla forma di questa sedia). Eppure sedia, forma, percezione, bellezza sono tutti sostantivi che possono entrare in combinazioni linguistiche dello stesso tipo, o essere mischiati a piacimento nella stessa frase.
Possiamo ad esempio dire: questa sedia è comoda, ma accidenti com'è brutta. Frasi come questa, che ciascuno pronuncia, ascolta, scrive, legge o pensa centinaia, forse migliaia di volte al giorno, intendendole alla perfezione, sono ontologicamente insidiose. Si parla di un oggetto fisico, di una qualità che dipende dalla sua conformazione, di un canone estetico che la forma (nella fattispecie) non soddisfa. Quali di queste cose esistono nel medesimo senso di esistere? Se dico: questo libro è interessante, ma pesa troppo, con la stessa occorrenza del sostantivo libro mi riferisco dapprima ad un contenuto informativo fuori dallo spazio-tempo, dipoi a un oggetto fisico qui-e-ora. Dunque di quanti oggetti sto postulando la realtà?
Il linguaggio, con la sua grammatica, aiuta a distinguere sostanze, azioni, qualità, modalità, ma non ci consente di chiarire fino in fondo l'ontologia di ciò di cui stiamo parlando. A quanto ne so, nessuna lingua ha sviluppato strumenti (ad esempio, contorni prosodici) per segnalare se stiamo usando un sostantivo come libro nel senso di oggetto fisico o in quello di oggetto culturale. Questo non consentire di esprimere l'ontologia, è poi anche un permettere di pescare nelle acque torbide dell'equivoco linguistico. Sicché possiamo esclamare: che libro pesante! lasciando l'interlocutore nel dubbio se si tratti di un giudizio sulla trama o sulla brossura.
Se il linguaggio è ontologicamente opaco, di sicuro non sarà per caso. Evidentemente è proprio così che vogliamo che funzioni, è così che bene o male ci serve. Però poi non meravigliamoci se la discussione dei filosofi sulla realtà non termina mai.