Le vicende della legge sul negazionismo, che porterebbe a configurare come reato il fatto di negare che siano avvenuti crimini contro l'umanità, primo fra tutti l'Olocausto, porta alla ribalta delle cronache una domanda di quelle non proprio facili: cos'è la verità?
Noi parliamo normalmente di verità, ma quando capita di doverla inquadrare concettualmente iniziano i grattacapi. Il linguaggio non si fa alcun problema ad accogliere la vaghezza di certi concetti, e anzi fa della loro debolezza un punto di forza. Ma quando si tratta di far uscire le parole dal vago, come ci si trova a fare in sede legislativa, se ne incontra spesso lo zoccolo duro filosofico. Può la verità essere istituita per legge? Non si rischia, sia pure con intenti condivisibili, di realizzare l'incubo di Orwell? Qualcuno se lo chiede.
La questione è delicata e non se ne esce se si affronta con strumenti inadeguati. Uno di questi, contro i pronostici, è la logica. Di fatto, quando Odifreddi ha provato a dire qualcosa in merito al negazionismo, parlando del carattere mediato della verità storica, ne è nato un disastroso equivoco, sicché il "matematico impertinente" è stato messo sulla graticola, manco fosse un neonazista.
Un logico che voglia dire qualcosa in merito alla questione, deve stare attento a non confondere due nozioni molto diverse: quella di verità e quella di interpretazione. Detto in poche parole, per la logica, la verità è un valore (vero o falso, nella versione classica) che si può attribuire alle proposizioni, e tale attribuzione si chiama appunto interpretazione. Posto che le proposizioni si possono connettere tra loro in certi modi (ad esempio: se .. allora ..), la logica ci può dire ad esempio quali siano le interpretazioni valide, esenti da contraddizioni. Ma non può entrare nel merito di come si produce l'intepretazione, e neanche nel merito di quello che le proposizioni significhino materialmente. Se mio nonno ha le ruote allora è un carretto; mio nonno ha le ruote, dunque è un carretto suona perfettamente valido alle orecchie di un logico, come se fosse la più sagace delle massime di La Rochefoucauld. Insomma, la logica non ci dice cos'è la verità, ci dice solo come ci si lavora, posto che qualcuno fornisca una qualsivoglia interpretazione.
Per affrontare in modo generale la questione del negazionismo bisognerebbe proprio dire qualcosa sulle condizioni per le quali possiamo socialmente interpretare una certa asserzione su eventi passati come vera. Ma su questo (e su tante altre cose) la logica tace, e i logici rischiano di prendere cantonate come tutti gli altri.
Se l'attuale Parlamento italiano ha le idee chiare sull'asseribilità delle proposizioni al tempo passato, che aspetta a informare i filosofi, gli storici, e tutti quelli che ancora non ci si raccapezzano? Ovviamente, però, sulle questioni filosofiche il Parlamento naviga a vista come chiunque altro, e il rischio di fare pasticci legislativi è concreto.
Purtroppo, noi non conosciamo un metodo sicuro e generalmente applicabile per assegnare la verità alle proposizioni storiche, abbiamo solo il lavoro fallibile degli storici in carne e ossa. Tuttavia, per l'enormità e la prossimità di alcuni fatti, è salda conoscenza comune che certe nefandezze, come l'Olocausto, siano avvenute. Vogliamo allora impedire (come peraltro si fa in altri Paesi) che qualche imbecille le neghi, magari parlando da professore in un'aula scolastica, con ciò ammantando la nefandezza nell'aura di una irrespirabile impunità.
Un modo per uscirne, a mio avviso, sarebbe quello di stilare una concreta lista di nefandezze innegabili. Quanto possa risultare lunga è difficile dire, ma possiamo affermare al di là di ogni ragionevole dubbio che l'Olocausto vi comparirebbe nelle primissime posizioni.