Il dialogo burocratico è un affare di Stato

tacete

La Pubblica Amministrazione vive di dati. Certificati, autorizzazioni, licenze, bolli, sentenze, ingiunzioni, appelli, referti, iscrizioni ad anagrafi, a registri, a catasti, ad albi. Chi veicola, integra e dà senso a tutti questi dati sono i pubblici ufficiali, gli addetti ai lavori e i comuni cittadini. Si tratta di un immenso, ubiquo e continuo dialogo burocratico. Fare un calcolo anche solo approssimativo del valore attuale e potenziale di questo dialogo è molto difficile, perché si tratta di un valore immateriale, pervasivo, indiretto. E’ come il valore del linguaggio, o dell’aria che respiriamo.

E’ opinione comune, ovunque e da sempre, che l’efficienza di una Pubblica Amministrazione risieda largamente (se non addirittura consista) nell’efficacia del dialogo burocratico, per come lo intendiamo qui. Sin dagli albori dell’era digitale ci si sforza di usare le tecnologie dell’informazione per migliorarlo sostanzialmente. Come minimo, facendo in modo che le amministrazioni condividano una conoscenza di sfondo sul cittadino, così che questo sia sollevato dall’onere di attivare, integrare, verificare e correggere i flussi di informazione che lo riguardano – come se, per chiedere qualsiasi banalità alla mamma, egli dovesse sempre dimostrarle, carte alla mano, che è suo figlio.

In Italia (tanto per cambiare) l’integrazione del sistemi informativi pubblici è al palo, e il dialogo burocratico è un incubo, una glossolalia, una commedia di Ionesco. In venti anni, abbiamo visto sfilare governi, ministri, sottosegretari, agenzie, dirigenti, comitati, abbiamo celebrato convegni, simposi e workshop, compilato agende, impegnato miliardi in gare d’appalto grandi e piccole, con risultati che – nessuno lo nasconde – cadono al di sotto non solo dei più incauti proclami politici, ma anche delle più modeste aspettative della gente comune.

In tutto questo irrompe l’On. Stefano Quintarelli (Scelta Civica), che riesce qualche giorno fa a far passare un emendamento alla Costituzione in cui si afferma che lo Stato “avrà la competenza sul coordinamento informatico dei dati, dei processi e delle relative infrastrutture e piattaforme informatiche”. La snervante discussione su come la Pubblica Amministrazione debba dare coerenza ai propri atti linguistici, se attraverso l’Amministrazione centrale o quelle locali, che ha contribuito a vanificarne gli sforzi di integrazione, giunge finalmente a una conclusione.

Ma, paradossalmente, mentre l’emendamento passa (caso rarissimo) all’unanimità in Parlamento, tra gli addetti ai lavori, quelli che hanno avuto il tempo e la pazienza di seguire l’ultra-ventennale vicenda dell’informatica pubblica, serpeggia qualche dubbio. Tra politica e società c’è sempre una distanza, anche nei pochi momenti in cui la prima trova un afflato. Proverei a riassumere la questione così, con parole mie: concentrare il dialogo burocratico in un solo punto dell’ecosistema pubblico è un rischio. Se – come diceva Foucault – il linguaggio è potere, è bene che non vi sia un solo padrone della parola amministrativa, è bene non sopprimere la pluralità delle voci, è bene che la formatività della lingua resti quanto più possibile distribuita nel corpo sociale.

Oggi al governo dell’informatica pubblica è insediata una squadra di eroi giovani e belli, paladini dell’apertura e dalla trasparenza, ma cosa accadrebbe se il vento cangiante della politica portasse nel cervello linguistico statale una di quelle concrezioni del demi-monde politico-affaristico che di tanto in tanto, qui e lì, impestano il Bel Paese? Cosa accadrebbe se ai kyrios dell’open software subentrassero piccoli satrapi dalla personalità disturbata che considerano lo Stato come un giocattolo del proprio ego bambino? La Costituzione deve garantire l’equilibrio dei poteri, non il suo opposto, e questo per motivi sui quali – si spera – non c’è bisogno di insistere.

Dunque si presenta la seguente aporia: da un lato, sicuramente, la centralizzazione favorisce il “dialogo burocratico”. Il modello del cloud vince sul piano tecnico, su questo l’information technology non ha dubbi. Dall’altra però si profila il rischio dei walled garden, cioè della presa in consegna dei dati che ci riguardano da parte singoli detentori, non meno problematici se si presentano sotto le insegne dello Stato, che si troverebbero di fatto ad esercitare potere di vita o di morte su tutto l’ecosistema informativo.

Una via d’uscita ci sarebbe. Si tratterebbe di precisare, nell’iter della riforma costituzionale, che lo Stato ha sì competenza su dati, infrastrutture e piattaforme, ma garantisce trasparenza ai cittadini, condizioni di accesso eque e paritarie a tutti i soggetti pubblici e privati, inclusione di tutti i portatori di interessi e competenze nei processi di decisione. Sul modo più intelligente di realizzare una Costituzione siffatta si potrebbe poi discutere.