La percezione sociale dell’Intelligenza Artificiale, cioè del progresso tecnologico per antonomasia, si colloca sul piano cartesiano definito dagli assi dell’aspettativa e della paura. Gli entusiasti delle tecnologie hanno grandi aspettative e nessun timore: l’IA è la nuova rivoluzione che libererà l’umanità dalle catene del lavoro e delle malattie. I catastrofisti condividono l’idea che l’IA stia compiendo grandi progressi, ma sono persuasi che questo causerà poco meno che l’estinzione del genere umano. C’è poi chi sull’IA ha aspettative molto più modeste, o addirittura avverte i primi freddi di un prossimo “AI Winter”. Il sentimento di questi ultimi va dalla delusione al sollievo, in funzione del grado di tecnofobia. Se è vero che la virtù sta nel mezzo, la zona del piano che dovremmo esplorare è quella centrale, cioè quella di un cauto realismo. Questo richiede intelligenza critica in un dibattito pubblico opportunamente informato.
Molto equivoco nasce dal considerare l’Intelligenza Artificiale non come un processo storico e sociale, ma come un piano occulto che assume le sembianze di ente dotato di una sua specifica volontà. La personificazione dell’IA, cioè il vederla come soggetto in sé, che si legge in molti commenti vagamente heideggeriani rischia di farci perdere di vista ciò che di concreto possiamo fare. Pensare all’IA un’agente super-razionale, raffigurarla in stile Metropolis come un robot che avanza inarrestabile verso un futuro fatale, non può che diffondere una paralizzante nevrosi. Paralisi che ovviamente avvantaggia chi sta facendo montagne di soldi anche grazie all’inerzia delle istituzioni e della politica. La tecnologia invece è una realtà sociale, e per quanto tale constatazione possa oggi apparire poco rassicurante, è da questa che bisogna partire.
L’idealizzazione dell’IA induce l’appello ad un altro ideale, quello dell’Etica, raccolto di recente anche dal Vaticano. L’appello è lodevole, beninteso, purché si eviti qualsiasi equivoco sulle qualità morali degli algoritmi. Benché la narrazione sull’IA insista molto sul tema della mimesi della cognitività umana, la differenza ontologica tra un algoritmo e una coscienza deve sempre restare chiara. Il rischio di porre l’etica come principale presupposto del discorso sull’IA è che ci si focalizzi su un approccio meramente legislativo. Pensare di governare il digitale con leggi e norme morali, cioè in termini di diritti e doveri, di bene e di male, appare debole e illusorio. Il problema non è solo il carattere globale, ubiquo e intangibile delle tecnologie informatiche, ma è nel fatto che i soggetti concreti di tale ipotetica normatività, cioè le persone, non sembrano molto consapevoli di ciò che si vorrebbe normare, sicché non sollevano alcuna istanza di cambiamento dello stato di cose, né materiale né morale. Cosa tuttavia giustificherebbe una norma se non appunto un’istanza sociale? Chi avrebbe l’ardire politico di vincolare ex lege il godimento di quello che ormai viene percepito come diritto al consumo, alle relazioni, alla parola, annesso alle piattaforme digitali intelligenti?
I monopolisti del digitale conoscono bene i punti deboli delle istituzioni democratiche, se offrono regole in cambio della tutela delle loro posizioni dominanti. Il fatto che il responsabile della comunicazione di Facebook e il CEO di Google profondano all’unisono tante lodi per il GDPR, ad esempio, è segno che le piattaforme sono ben felici di osservare le leggi europee finché nessuno mette a rischio la loro accumulazione monopolistica di dati. E d’altra parte, in Europa, circola da tempo l’idea venire a patti con le piattaforme, all’insegna del motto sindacale: “negoziare l’algoritmo”. Il problema però non sono gli algoritmi e la loro sindacabile intelligenza, ma il piccolo numero di coloro i quali detengono dati e infrastrutture per utilizzarli per lo più al riparo da giurisdizioni nazionali e sovranazionali.
Alex Langer sosteneva che la conversione ecologica dell’economia non può avvenire per l’azione di uno “Stato etico” (qualsiasi cosa esso sia) ma solo come realizzazione di un desiderio sociale. Per l’ecologia dell’infosfera vale esattamente lo stesso ragionamento. Un governo democratico delle tecnologie intelligenti è possibile solo per impulso di una nuova e diffusa cultura digitale. Questa tuttavia non si può istituire per legge, né somministrare nelle scuole (men che meno riducendo la questione al “coding”), né infine far graziosamente calare dalle accademie e dai convegni: si deve invece coltivare palmo a palmo nella società. Certo, nessuno ha la formula del desiderio sociale, ma vi sarebbero molte cose utili da fare, tutte alla portata dei governi che volessero impiegare bene le risorse destinate alla ricerca e allo sviluppo.
In estrema sintesi, bisogna incentivare la diversificazione, che è vitale per infosfera tanto quanto per la biosfera. Piuttosto che “negoziare l’algoritmo” con chi lo detiene, l’Europa dovrebbe attivarsi affinché tanti algoritmi differenti possano coesistere e confrontarsi in uno spazio aperto. La decentralizzazione delle piattaforme sociali dovrebbe essere in cima a qualsiasi agenda di politica del digitale, non solo l’assillo di pochi ricercatori. Solo la pluralità delle voci può tener sveglia la coscienza di chi vive in un sistema linguistico come l’infosfera. Se cresce l’offerta di linguaggi, le persone si fanno attente e critiche. Se invece la domanda di senso incontra poca offerta, essa resta latente e viene fatalmente risucchiata nel buco nero dell’ovvio merceologico.
Di educazione digitale si parla ormai da decenni, ma per lo più elencando e misurando competenze tecniche. Bisognerebbe invece educare i sentimenti e coltivare l’emozione della conoscenza: gli skill vanno anzitutto desiderati. In definitiva, ci vuole più arte. Il progetto italiano Datapoieis offre un piccolo ma fulgido esempio: “utilizza i dati e l’intelligenza artificiale per creare oggetti ed esperienze che aiutano gli esseri umani e le loro società a percepire e comprendere i complessi fenomeni del nostro mondo globalizzato e ad usare questa comprensione per promuovere un cambiamento positivo”. Sul cammino verso un’Intelligenza Artificiale equilibrata e governabile deve trovare spazio, oltre alla tecnologia, il desiderio sociale, senza cui nulla potrà realizzarsi.