Con una lettera al Sole, De Benedetti lancia una proposta per salvare l'editoria: sia Google stessa a redistribuire i proventi pubblicitari raccolti dal motore di ricerca ai fornitori di contenuti. Questa proposta segue alle mosse di Murdoch, che ha giocato la carta della minaccia di sottrarre a Google i contenuti del suo gruppo editoriale e darli in esclusiva a Bing, con risultati incerti.
Ora, in assenza di un quadro normativo globale, non si vede perché Google dovrebbe dividere la torta pubblicitaria con i produttori di contenuti, e d'altra parte non sembra che la concorrenza rappresenti per loro una grave minaccia, visto che nessuno vorrebbe davvero essere invisibile al motore di ricerca di gran lunga più usato.
Se Google offre loro gratuitamente un servizio così necessario, perché gli editori sono a disagio rispetto al fatto che il motore ricavi introiti dalla vendita di pubblicità? Andrebbe forse meglio a Murdoch e De Benedetti se Google non avesse AdSense? Vero: quella pubblicità vale solo in relazione ai contenuti, ma questa è una regola generale del rapporto tra informazione e ricerca, qualsiasi blogger potrebbe reclamare il suo share. E d'altra parte, Google, in generale, non chiede ai giornali una percentuale degli incassi pubblicitari che questi fanno in virtù del fatto che il motore li ha condotti sulle loro pagine.
Certe proposte un po' dissonanti che vengono oggi dall'editoria derivano forse dal fatto che Google mette i detentori di copyright in una specie di doppio vincolo batesoniano: da una parte questi hanno bisogno del motore, che si presenta dunque come partner, dall'altra il servizio di ricerca svolge un ruolo di intermediazione che cattura fatalmente parte del valore del contenuto, configurandosi dunque come concorrente. Ti schiaffeggio per il tuo bene, dice il genitore schismogenetico al bambino attonito; ti saccheggio per il tuo bene, dice Google all'editore in crisi, o almeno questo percepiscono alcuni di essi.
Che sia fondata o meno la tesi del saccheggio, non bisogna essere esperti psicologi per sapere che, per chi si ritenga preso in un doppio vincolo, implorare libertà al proprio aguzzino ha poco senso. Sarebbe meglio analizzare la natura del vincolo e cercare di neutralizzarlo senza ricorso al soggetto vincolante. E senza attendere un deus-ex-machina, nella fattispecie una qualche improbabile normativa globale, o qualche odiosa e iniqua tassazione locale. Certo, per liberarsi dal doppio vincolo bisogna essere psicologicamente creativi, e per la creatività purtroppo non esiste un metodo.