Filosofia del DRM

I post di Mimmo Cosenza, Fabio Turel,  Gianluca Dettori, hanno affrontato la questione del Digital Rights Management (DRM). Se ne parla parecchio, in rete, soprattutto dopo la proposta Sarkozy e l’appello di Chiariglione. Arturo Di Corinto ne ha dato un ottimo sunto sul numero di Nòva del 6 Dicembre u.s. La questione, in due parole, è: fino a dove è lecito spingere il controllo della rete per garantire agli autori di opere digitali (o digitalizzate) e ai loro distributori il ‘giusto compenso’? Tra gli estremi del Grande Occhio dello Stato proposto da Sarko e il laissez faire si cerca un compromesso di buon senso, ma non è certo facile. Ho notato, nelle discussioni in rete,  l’affiorare di due ‘nuances’  filosofiche, contrastanti ma stranamente convergenti, il che mi ha incuriosito.

Platonismo. L’accesso alle opere che formano il patrimonio culturale è un diritto universale e inalienabile. Infatti, l’opera esiste nello spazio combinatorio delle idee e il merito del creatore non è altro che quello di averla scoperta. Come nella Biblioteca di Babele, tutti i libri esitono già, bisogna solo avere la pazienza di scoprire quelli che significano qualcosa. Ma poi, questi restano nella Biblioteca, a disposizione di tutti. In quanto tale, l’opera appartiene dunque all’Umanità, pretendere dei diritti su di essa è quasi un illecito.

Materialismo. L’accesso alle opere che formano il patrimonio culturale è un diritto universale e inalienabile. Infatti, l’opera è frutto di un lavoro concreto di creazione, come qualsiasi altro artefatto, ed essa appartiene naturalmente al creatore. Ma, remunerato il lavoro, l’opera può essere acquisita e resa disponibile alla collettività. Ogni ulteriore ‘diritto’ di altri soggetti (es. editori) è quasi un illecito.

Credo che sia bene pensare all’opera (una canzone, una foto) come un ‘particolare astratto’:  un oggetto non collocato nel tempo e nello spazio, ma originato o materializzato nel tempo e nello spazio, a seguito di un evento concreto di creazione o riproduzione. Insomma la Divina Commedia, come opera, non è in alcun luogo o tempo, ma è stata scritta da Dante agli inizi del ‘300 e ne tenete una copia in libreria. Quindi non è né un universale né un oggetto particolare concreto. Qui sta la sua complessità: l’opera partecipa sia del materiale che dell’immateriale, ed il suo valore è legato ad entrambi gli aspetti. Ridotta a oggetto concreto o a puro universale l’opera non si comprende, ed in particolare non si comprende il suo valore, che è nell’uso.

Difficile, la filosofia del DRM.

 

 

  • Andrea |

    Questo e’ il dilemma di fronte al quale ci pone Duchamp, in effetti. Nel ready-made, l’autore non crea nulla, e nemmeno trasforma. Forse indica semplicemente qualcosa come opera d’arte. Ma cercara un vero senso nel dadaismo e’, probabilmente, intrinsecamente sbagliato.

  • Guido |

    In quel caso l’ oggetto esisteva prima, non l’opera d’arte. E che, il signore che andava in giro con la bicicletta poi cannibalizzata da Duchamp pedalava un’opera d’arte?

  • Andrea |

    E con il “ready-made” di Duchamp (e altri) come la mettiamo? In quel caso l’opera d’arte esisteva da prima, e dire che l’artista la ha creata e’ probabilmente inappropriato, se si parla, come menziona Guido, di un “evento concreto di creazione o riproduzione”. Io pendo, come al solito, un po’ di piu’ verso il platonismo.

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