Pierre Menard è un altro autore del Quijote di Cervantes. Quando Menard, scrittore francese del Novecento, riscrive il celebre romanzo, il significato delle parole che usa è profondamente diverso da quello che avevano al tempo della prima stesura. Le intenzioni espressive del francese non hanno nulla a che fare con quelle dello spagnolo, e d'altra parte chi legge l'autore contemporaneo intenderà le frasi cinquecentesche con tutta un'altra connotazione. Il Quijote di Menard è dunque un'opera originale, non un plagio.
Con questo paradosso, Borges (Finzioni, 1944) ci fa capire che il significato di una parola, di una frase o di un testo è certamente un fatto sociale e storico, e tuttavia, per non far girare a vuoto il caleidoscopio dell'interpretazione, l'atto della loro iscrizione gioca un ruolo fondamentale.
Così la pensa Maurizio Ferraris, che ha ospitato a Torino la scorsa settimana un workshop dedicato alla documentalità e agli oggetti sociali. La traccia della scrittura (in senso lato) è quella che mette al mondo oggetti come i romanzi, i matrimoni, i contratti; il gesto concreto della registrazione fa parte integrante di questo tipo di cose. Questa tracciabilità evita agli oggetti sociali il penoso ricorso a finzioni come quella delle "intenzionalità collettive" di Searle.