Parlare di quello che non c’è misura la distanza tra il linguaggio, logica e realtà. Non solo noi non abbiamo nessuna difficoltà a discutere di cose che non esistono, ma, nei nostri discorsi, passiamo dalla realtà alla finzione con molta disinvoltura, senza neanche accorgercene. Al contrario, la logica ha bisogno che l’insieme degli oggetti di cui si parla sia determinato prima che si inizi a formulare alcunché. Da questo nascono quei classici grattacapi che Quine chiamò della “Barba di Platone”. La frase: “Pegaso non esiste” nega la proprietà di esistere ad un oggetto, ma per negare che qualcosa abbia una proprietà, quel qualcosa deve pur esistere, di qui il grattacapo. Questo, ovviamente, non ci impedisce né di formulare né di comprendere la frase nella sua chiarissima verità.
I filosofi, specie gli “analitici” per i quali la relazione tra linguaggio, logica e realtà è cruciale, hanno tentato molte soluzioni a questo problema. Una delle più classiche, dovuta sempre a Quine, propone l’introduzione di verbi (predicati) al posto di nomi (costanti individuali). Se usassimo “Pegasizza” invece di “Pegaso”, potremmo dire “Non esiste alcun oggetto che Pegasizza”, et voilà, avremmo rasato Platone. Ma la cosa appare a molti innaturale e insoddisfacente.
Tra questi v’è Francesco Berto, che di recente ha esposto la sua proposta nel libro di Laterza L’esistenza non è logica. Berto abbraccia l’ontologia di Alexius Meinong, un filosofo molto deriso dai logici analitici per aver sostenuto l’esistenza di oggetti inesistenti. L’idea in effetti sembra bizzarra, ma in qualche modo, se è vero che ci ragioniamo sopra, oggetti come il “cerchio quadrato” devono pur essere qualcosa. La proposta di Berto, in estrema sintesi, è quella di ammettere, accanto ai “mondi possibili” della logica classica, anche i “mondi impossibili”. Questi sarebbero stati di cose ideali nei quali le leggi logiche sono sospese, per cui la congiunzione di due proprietà disgiunte (ad esempio essere un cerchio e essere un quadrato) non sarebbe analiticamente falsa, e un cerchio quadrato potrebbe, almeno concettualmente, esistere.
Sarebbe facile ironizzare dicendo che, a giudicare dall’assurdità delle situazioni che ci circondano, quello in cui viviamo deve essere proprio uno di questi “mondi impossibili”. Il problema di un “meinonghismo” come quello proposto dal Berto è che la cura sembra essere peggiore del male: per spiegare oggetti inesistenti si postulano mondi impossibili. Non mi sembra un gran risultato.
Al fondo del problema dell’inesistente c’è, dicevo, lo scarto tra linguaggio, logica e realtà. Se il linguaggio mette fuori gioco la logica in virtù della sua libertà, introdurre nuovi oggetti nel mondo al solo scopo di soddisfare le esigenze logiche mi sembra una mossa sbagliata. Il linguaggio è in ordine così com’è, e il mondo è quello che è. La logica fa bene il suo mestiere nel caso in cui si sappia esattamente ciò di cui si parla. Tutto ciò che possiamo fare è favorire questi casi.