Su MicroMega continua la discussione sul "nuovo realismo", che vuole liquidare il "pensiero debole" novecentesco ribadendo che la realtà è quello che è, indipendentemente dalle costruzioni della coscienza umana, cosa della quale la gente probabilmente non ha mai dubitato. Sono apparse repliche dal versante opposto (lo si dovrà chiamare "nuovo sofismo"?), e si è levata la voce di Emanuele Severino. Quest'ultimo avanza il timore che un nuovo realismo possa coincidere con un certo "senso comune scientifico" (meglio dire scientistico?) incapace di confrontarsi seriamente con la dimensione filosofica millenaria del problema. Non so se sia il caso di Severino, ma ho la sensazione che un po' del disagio filosofico che circola nei confronti del nuovo realismo attuale nasca dalla fortuna dell'ontologia nelle tecnologie dell'informazione, ed in particolare nel Web.
Per integrare e mettere in comunicazione sistemi diversi, i computer hanno in effetti bisogno di qualche rappresentazione di "quello che c'è" nel mondo in cui operano. Fra i tanti nomi con cui si sono storicamente chiamate questo genere di rappresentazioni, nell'ultima decade si è affermato quello di "ontologie". Nell'accezione informatica, però, le ontologie non sono sempre "teoria sull'essere", ma più debolmente specificazioni di ogni sorta di concettualizzazione (Tom Gruber), quindi anche eventualmente la concettualizzazione di qualcosa che non c'è, tipo quel genere di figure fittizie messe a coprire le magagne di sistemi informativi mal progettati. Qualche ricercatore, va detto, ha preso invece la cosa sul serio e ha visto il nesso tra le ontologie richieste in informatica e l'ontologia come teoria su quello che c'è nel mondo. Parlo ad esempio, in Italia, del Laboratorio di Ontologia Applicata del CNR. La spinta verso il realismo esercitata dall'informatica si applica dunque nella misura in cui queste ontologie ambiscono alla realtà. Quanto è forte questa ambizione? Poco, a dire il vero. Sir Berners-Lee, per esempio, il paternoster del Semantic Web, ci ha dato i linguaggi formali per le ontologie (Ontology Web Language), ma si è sempre rifiutato di entrare nei loro contenuti.
Se regge l'ipotesi realista, e cioè il mondo possiede proprietà indipendenti da come ciascuno se le rappresenta, allora queste proprietà, opportunamente teorizzate, possono in effetti fornire un fondamento per l'integrazione semantica di cui l'informatica ha bisogno. E si tratta, detto per inciso, di un bisogno attorno al quale girano molti soldi. Qualcuno, come Barry Smith, ha preso decisamente questa strada. Ma l'atteggiamento che prevale è quello di un pragmatico agnosticismo: non sappiamo se i concetti informatici individuino qualcosa fuori dai sistemi, interessa solo che aiutino a farli funzionare. Per il resto può anche valere il più assoluto relativismo ontologico: ciascuno si commette a quello che crede ci sia, e ci si intende, se ci si intende, in virtù di traduzioni radicali e arbitrarie.
D'altra parte, anche tra gli informatici vi sono ingegneri postmoderni che considerano le ontologie come indebite imposizioni di verità surrettizie. Poi però, a guardar bene, ci si accorge che un impegno su cosa c'è nel mondo esiste comunque anche nei loro debolmente pensati sistemi. E anzi, la debolezza ontologica diventa paradossalmente forza quando si scopre che, in assenza di una concettualizzazione esplicita (e dunque criticabile), la semantica del sistema si incarna nelle viscere oscure della sua implementazione, e non c'è altra scelta che prenderla in blocco così com'è. In informatica si vede molto bene quello che dicono filosofi nuovo-realisti, e cioè che quelle di realtà e verità possono essere nozioni critiche, non necessariamente dogmatiche, come i postmoderni volevano farci credere.
In informatica, le ontologie, sanamente intese, dovrebbero essere ipotesi di lavoro su ciò con cui il sistema ha a che fare. Un sistema che renda queste ipotesi trasparenti e operabili sarà in grado di rapportarsi meglio col mondo ed i suoi cambiamenti. La validità delle ipotesi ontologiche si misura nella loro adeguatezza, questo ci suggerisce la filosofia della scienza, e questo vale a maggior ragione per le ipotesi su quello che c'è. Come fondare la misura di adeguatezza delle rappresentazioni alla cose, delle proposizioni alle mondo, ecc, è in generale un problema filosofico aperto. L'ingegnere sofista, dogmaticamente, dice che si tratta di un problema insolubile, e tiene il mondo nel scacco delle proprie tecniche. L'ingegnere realista, criticamente, dice che l'adeguatezza si può misurare, e consente al mondo di confrontarsi in modo trasparente con le proprie proposte ontologiche.
Il microcosmo dell'ingegneria del software riflette dunque fedelmente e per intero la questione del nuovo realismo, anche perché si tratta di un microcosmo che tiene dentro di se la mappa del cosmo intero.