Michele Serra non capisce Twitter, dice, per motivi generazionali. Anzi, con un sottile paradosso, dice che lo userebbe solo per twittare che gli fa schifo. Immediate le reazioni.
Se la cultura (in senso antropologico) produce una cosa che un intellettuale (chiunque la parola denoti) non capisce, ovviamente il problema è dell'intellettuale, e la cosa potrebbe chiudersi qui.
Ma ciò che Serra stigmatizza non è Twitter in quanto tale, è il suo stare-per la superficialità della comunicazione internettiana, rapida ed emotiva, il fatto che in 140 caratteri non si possa fare un ragionamento, ma solo tirare insulti o levare osanna.
Nella discussione che ne segue, Serra si manifesta come un dropped out, uno che ha rinunciato a stare dentro ai processi della contemporaneità. Non è un problema anagrafico: tanti suoi (e miei) coetanei si tengono agevolmente dentro questi processi, portandovi (nei casi più felici) la propria esperienza. E' piuttosto un errore di ragionamento, un pensiero fallace, è il non saper leggere fino in fondo la trama di quello che ci circonda. Una caduta, insomma, dalla quale tutti gli ammiratori del giornalista (tra i quali mi annovero) auspicano una rapida riscossa.
Varrebbe la pena di ricordare la celebre lezione di Calvino sulla rapidità:
Un ragionamento veloce non è necessariamente migliore d’un ragionamento ponderato; tutt’altro; ma comunica qualcosa di speciale che sta proprio nella sua sveltezza.
Più prosaicamente si può dire che Twitter funziona da cerniera, è un luogo di rimando, è l'hub di una elaborazione che avviene in tutto il web. Assolve ad una funzione puramente allusiva, semiotica, con tutti i suoi tag e i suoi tiny url, ed è proprio nel suo effimero che aggiunge valore.
Twitter non causa la superficialità del pensiero più di quanto un segno, ad esempio una parola, sottragga il suo oggetto all'esperienza. E che, allora non dovremmo più parlare?