TripAdvisor subisce una multa dall’antitrust italiana per aver asserito con troppa enfasi l’attendibilità delle recensioni dei suoi utenti. Negli stessi giorni, Facebook aggiunge l’inattendibilità tra i motivi di offuscamento dei contenuti diffusi attraverso la rete sociale. Le opinioni degli utenti sembrano godere di una pessima reputazione commenta Guido Scorza, con arguzia degna di Groucho Marx.
A una decina d’anni dall’avvento dei sistemi di feedback in rete, dopo l’ingresso di questi nella pratica commericale, nell’immaginario sociale e finanche nell’agone politico, la libera espressione d’opinione perde oggi la sua aura. Questo di tanta speme internettiana oggi ci resta: bufale imbufalenti, esercenti esacerbati, triboli in tribunale e polli in politica.
Che l’opinione sia altro dalla verità, che al fiume dell’informazione doxa e episteme siedano su diverse sponde, dovrebbe essere abbastanza chiaro. Ma un certo qual positivismo contemporaneo ha ritenuto e forse ancora ritiene che, sui grandi numeri, la prima tenda alla seconda, che tante opinioni facciano una conoscenza. Certo, la persuasività dell’accordo di giudizio, l’effetto trainante della communis opinio sono cose vere e non le ha inventate internet. Ma qui stiamo parlando di un salto logico, di una sorta di principio di necessitazione quantitativo: la somma di tante credenze produce una verità. Idea bislacca e sciaguratissima, come la storia ci insegna, ma sempre in agguato, e divenuta pericolosamente suadente al tempo dei big data.
Una proposizione (ad es. P = l’albergo Miramare è bello) è (classicamente) vera o falsa, ma a noi può ben succedere di non conoscerne il valore. Possiamo essere informati del giudizio di qualcuno (ad es. Q= Mario afferma che P) senza tuttavia che questo si traduca in una nostra conoscenza. A rigor di logica, anche se tutti i nostri amici affermassero la proposizione, noi non ne sapremmo nulla di preciso. Allo stato puro (senza cioè assiomi che le vincolino), infatti, le proposizioni sono atomi impermeabili.
Di fatto, però, lo sappiamo: le opinioni contano. Il credulo Calandrino, nel Decamerone, si convince di essere in stato interessante perché tre amici gli apparecchiano una burla. Ma anche gli scettici inveterati non possono fare a meno di pensare in termini induttivi, e se tanti credono P sono molto tentati di crederci anche loro.
Indietro non si torna. Difficile per noi ricominciare a scegliere i ristoranti solo sulla guida Michelin. Che fare allora? La sentenza dell’antitrust italiana (che segue un’analoga britannica) parla chiaro. Non si spacciano le opinoni per indizi di verità. Tutti coloro che offrono servizi commerciali basati sul rating devono avvertire, con un disclaimer, che non c’è alcuna garanzia di veridicità in ciò che gli utenti dicono, né singolarmente né collettivamente. Non si propaganda l’idea che una comunità, sia pure selezionata, possa sovvertire la logica.
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