Un virus è un pacchetto di informazione genetica che viene a replicarsi nei nostri corpi. Si tratta di un filamento di acido ribonucleico dove è codificato un algoritmo che gli consente di replicare di sé stesso a spese delle nostre cellule. Un virus non ha coscienza, dunque non ha volontà, desideri o paure. La sua azione è meccanica come quella di un sasso che staccatosi da un monte rotola a valle propagando il suo moto e formando infine una valanga. Lo scopo dell’azione, per questo agente, è l’azione stessa. Il virus non gode nel riprodursi, non gli importa di nuocere ai suoi vettori né di veder prosperare la sua discendenza. È un meccanismo iterativo perfetto nella sua assoluta vacuità.
Davanti al virus noi ci scopriamo, al contrario, fallibili e bisognosi di significati. L’epidemia di replicanti inconsapevoli appare dunque come l’inverso dell’umanità, una specie di sua immagine rovesciata. Della nostra società il virus nega, in particolare, il ricco linguaggio. Come pura ripetizione, esso non informa e non rimanda a nulla, e tuttavia mette in crisi le nostre magnifiche costruzioni di parole. Le istituzioni, oggetti sociali fatti di linguaggio, vacillano davanti all’algebrica insensatezza dell’iterazione virale. Futile si dimostra anche qualsiasi tentativo di vedere il virus come segno di qualcosa, di trarne auspici o ricercarvi ideologie. La vuota meccanica riproduttiva del filamento di RNA, se mostra qualcosa, mostra il limite delle nostre interpretazioni e la precarietà delle nostre ideazioni.
La rinuncia alla socialità, cui segue il drastico ridimensionamento dell’economia, appare oggi in quasi tutti i consessi umani come l’unica risposta all’insondabile algoritmo genetico del virus. L’assoluta nullità di senso provoca così la caduta dei processi di significazione, mettendo a rischio l’intera produttività umana. Ma questa crisi, pur nella sua meccanica, non può apparire come una necessità: la sconfitta che oggi subiamo fa parte interamente della storia. L’umanità si mostra infatti anche capace di risposte diverse.
È il caso ad esempio della Corea del Sud. Lì si sta combattendo il virus sul suo terreno, quello algoritmico, e a quanto pare con molto successo. Un gigantesco calcolo fatto di rilevazione dell’informazione epidemiologica, studio dei grafi delle interazioni personali, tracciamento delle traiettorie dei singoli individui ha messo in crisi la cieca logica del virus conservando al tempo stesso la vita sociale ed economica. L’intelligenza impersonale di una società ben automatizzata, ribaltando la narrazione distopica che spesso se ne fa, si mostra capace di proteggere i gangli vitali della nostra cara umanità.
There is no free lunch, tuttavia. Il superorganismo algebrico in grado di piegare la potente virulenza reclama la sua libbra di carne, e cioè il diritto del singolo individuo alla propria segretezza, che per inciso è il luogo dove ciascuno coltiva la propria soggettività, quella stessa che alimenta la ricchezza del linguaggio umano. Davanti alla prospettiva di una massiccia intrusione nella sfera privata però, a queste longitudini, freme lo sdegno del libertario e monta un legittimo sospetto foucaltiano. Ma la posta in gioco è definitiva e forse stavolta davvero there is no alternative.
Come affrontare il paradosso di una società tecnocratica che preserva il cuore dell’umanità al costo di una sostanziale ridefinizione della sfera individuale? La domanda è e resterà sempre aperta. Ma una cosa è chiara: il virus stesso ci mostra che perfino l’algoritmo più spietato non incorpora in sé uno scopo. Uno scopo, infatti, richiede un sistema di riferimenti, cioè una semantica, a cui l’algoritmo fatalmente non accede. Le finalità di controllo, di dominio e di profitto, se ci sono, sono dunque sempre esterne al calcolo. Il contesto del calcolo, in questo caso, lo conosciamo bene: si chiama politica.
Trarre auspici dal virus è futile, ma si può dire qualcosa su ciò che sta emergendo da questa crisi ed è già oggi sotto gli occhi di tutti: la qualità della politica è, letteralmente, una questione di sopravvivenza.