Andare sulla luna fu un 'big challenge' del sistema scientifico-industriale statunitense. Lo scopo dell'impresa non era certo quello di portare qualche astronauta a caracollare goffamente sulla polvere lunare. Lo scopo era quello di andare oltre l'estremo, e di farlo in diretta TV. Un 'big challenge' è un luogo dove l'innovazione incontra l'immaginario.
La ricerca si nutre di questo tipo di sfide. Una di queste, negli anni '90, fu quella che portò un computer IBM a alla vittoria contro Kasparov nel gioco degli scacchi. Ma tra dieci giorni, negli USA, un computer IBM porterà una sfida ben più impegnativa.
Jeopardy è un gioco a quiz televisivo progenitore del nostro Rischiatutto, ancora popolarissimo negli USA. Ai concorrenti vengono poste le domande in una forma obliqua: invece di chiedere 'cosa ha inventato Marconi nel 1895?' si domanda: 'quando Marconi l'accese per la prima volta, il secolo scorso stava per iniziare'. Il concorrente che ha intuito di che si parla preme un campanello per prenotare la risposta. Il 14 Febbraio prossimo venturo uno di questi concorrenti sarà un computer di nome Watson (non ha a che fare con Sherlock Holmes, ma col fondatore di IBM).
Il bello delle sfide è che vanno vinte, non importa come. Nel vincerle (o perderle) si capirà comunque qualcosa in più dei problemi che ci sono dietro. Qui i problemi si chiamano linguaggio, conoscenza, certezza, coscienza del contesto e di sé. Ben altro che le mosse degli scacchi.
Diciamo subito che Watson non è una 'macchina leibniziana', cioè un ordigno che tutto comprende, tutto conosce, tutto calcola. Quella era semmai HAL di 2001 Odissesa nello spazio, ma era una fiction, e finì anche male. Watson non è sicuro di nulla, se non della propria insicurezza. Nella sua memoria ci sono testi, e tra questi egli va in cerca della risposta. Come? Valutando, ad esempio, la probabilità che 'accendere per la prima volta' sia una buona perifrasi per 'inventare'. Questa valutazione può far ricorso alla semantica, ma anche no. L'importante è che abbia successo. D'altra parte, come si può contenere l'infinita creatività del linguaggio nella finitezza del ragionamento, specie quando gli altri concorrenti hanno il dito sul campanello? Tutti noi, nel comprendere, tiriamo spesso a indovinare.
Watson non solo è bravo a richiamare dalla propria memoria linguistica frammenti di discorso rilevanti per la risposta, ma capisce quale probabilità ha di indovinare, e se in un certa fase del gioco gli conviene rischiare o meno, insomma ragiona sulla propria certezza e sulla propria situazione. E vince: nelle prove ha già battuto diversi campioni, e se il 14 si aggiudicherà la gara o meno è, in definitiva, un dettaglio.
Cosa ci dice Watson sulla capacità delle macchine di comprendere il nostro linguaggio? Certamente ci conferma una difficoltà: la 'vera comprensione' richiede conoscenze concrete estesissime, come quella che inventare un apparato elettrico come la radio può verosimilmente causare il fatto di accenderlo per la prima volta. Il catalogo di queste conoscenze cresce di ora in ora, varia da contesto a contesto, da situazione a situazione, il computer fatica a starci dietro e spesso deve rinunciarci. Ma ci dice anche che, col linguaggio, molto si può fare in modo tentativo e nonostante l'incertezza. Perché, insomma, il linguaggio non è tutto e solo significato, e lì dove la sua esistenza autonoma lascia traccia, c'è un computer che lo attende.