Il giardino di Padre Busa

Busa Tra i lussi di cui mi pregio vi sono, di tanto in tanto, gli incontri con Padre Busa.  Chi è? Semplicemente, l’inventore della linguistica computazionale. Colui che, volendo studiare l’opera di San Tommaso, ebbe l’intuizione del valore delle neonate macchine di calcolo nell’analisi del testo. Si era nei primi anni ’50, e i computer erano altre cose rispetto a quelli di adesso. Nacque, con inenarrabili fatiche ed ingenti investimenti (per lo più di IBM), l’Index Thomisticus che potete oggi consultare online. Ma nacque anche una scuola di informatica umanistica di eccellenza che continua ancora, nonostante gli affanni della ricerca pubblica, nelle Università italiane e nel CNR.

Oggi il progetto di Padre Busa è quello di tornare alle radici di ogni lingua, applicarvi una disciplina, poter tradurre dall’una all’altra, rovesciando le sorti della Babele contemporanea. L’idea, spiega Padre Busa con una bellissima immagine, è quella di potare la foresta pluviale delle lingue moderne e ricavarne quel giardino dove risiede il cuore semantico degli atti comunicativi dell’Uomo.

"Perché dovrebbe avverarsi oggi la sempiterna utopia della lingua perfetta?" chiesi un giorno a Padre Busa. Egli, divertito dal fatto che la domanda venisse proprio da un informatico, rispose: "perché oggi abbiamo il computer".

Vi sono molti modi per interpretare questa risposta, e forse anche per respingerla, ma ce n’è uno sul quale anche chi nega l’esistenza di alcunché al di fuori dell’attitudine sociale dei parlanti deve seriamente riflettere. Ed è il bisogno delle macchine di comunicare tra di loro. Si tratta di un bisogno ormai non meno impellente di quello umano, a cui sono legati interessi economici e sociali incalcolabili.

Le macchine non hanno un’anima in cui  si riflette il mondo, né hanno una volontà per costruirne l’immagine. Cosa possiamo dare loro se non un giardino linguistico perfettamente coltivato?