Un fatto è un fatto, ma di un fatto, in rete, puoi dire quello che vuoi. Questa potrebbe essere la formulazione brechtiana del problema al centro della conferenza 'Fatti, verità, argomentazioni -Teorie e tecniche del fact checking collaborativo online', tenutasi venerdi scorso a Trento. A discuterne, invitati da Luca De Biase (ne scrive qui), Sergio Maistrello, Achille Varzi, Boris Rähme, Barbara Collevecchio, Luciano Serafini ed io.
La pratica della verifica delle notizie, a cui un tempo (ci ha raccontato Maistrello) erano dedicati interi uffici (per lo più popolati da donne, ma non perché meticolose o indiscrete, solo perché pagate meno) oggi è diventata una – come si dice – pratica sociale. L'informazione si produce e si diffonde attraverso la rete a folle velocità, e le testate giornalistiche non hanno i mezzi per mantenere la funzione nelle sue forme tradizionali, sicché il fact-checking, ormai, ce lo dobbiamo fare da soli. Un bel problema.
Come si chiariscono i fatti in un confronto sociale? Come si argomenta tra la folla? C'è coinvolto un concetto, quello della verità, altero e ineffabile, epperò infine praticato, dunque auspicabilmente disposto a scendere a patti con noi umani. Le domande, rivolte a uno tra i maggiori filosofi analitici contemporanei, Achille Varzi, trovano una risposta sicura: "non senza problemi". La machinery della logica, infatti, tra la folla si inceppa, o comunque funziona in un modo assai peculiare. Lo mostrò bene Condorcet: la somma di tante razionalità può produrre un paradosso. Al che il giovane Boris Rähme propone una soluzione gordiana: insomma, tra di noi sappiamo cos'è la verità, rimbocchiamoci le maniche e troviamo qualche soluzione concreta.
Soluzioni concrete, come quelle offerte dalla tecnologia, di qui l'invito a Luciano Serafini e a me. Brutta notizia, però: la tecnologia dell'argomentazione alla filosofia non può sottrarsi. Per quanto ho compreso dello stato dell'arte, i filoni sono due: quello epistemico e quello doxastico. Tutto gira attorno alla differenza tra sapere e credere. Si può lavorare col concetto di sapere, cioè di credenza in proposizioni vere, con l'obiettivo di calcolare la validità di un argomento, più o meno con le stesse tecniche con cui si dimostra un teorema. Il problema allora diventa quello di assegnare i valori di verità alle proposizioni di base. Ma non è proprio questo il compito del fact-checking? Non se ne esce .. Oppure ci si può rassegnare al fatto che capita spesso di credere in proposizioni false, con una interessante conseguenza: la conoscenza non si trasmette con semplici speech-acts, come vorrebbe una filosofia dell'informazione alla Floridi. Al contrario, ognuno di noi la deve costruire con una propria decisione. Scegliendo le fonti a cui credere, ad esempio. Ma questa è una cosa che non è il caso di delegare agli automi, perché non se ne dà algoritmo (a meno di non confondere scelleratamente la credibilità col consenso, quello dei 'like', per intenderci). Tanto è vero che nella questione diviene pertinente la sfera della psicologia, come ha spiegato Barbara Collevecchio. E allora?
Allora: l'informatica può fare molto per aiutarci a prendere decisioni. Ad esempio rendendo accessibile informazione enciclopedica sempre più curata e meglio organizzata, integrandola con quella di origine giornalistica, come ha mostrato Serafini, o con i "dati aperti" delle amministrazioni. Ma le decisioni cruciali, se credere o non credere, se intenzionarsi al vero o al falso, spettano comunque a noi, come decisioni umane.