L’effetto Barnum

Phineas_Taylor_Barnum_portrait Phineas T. Barnum, ricordato oggi su Repubblica, è noto a tutti per l'omonimo circo, ma la sua importanza va molto oltre, perché fu l'inventore dello 'show business' e dei principi su cui si basa ancora oggi.

La fortuna dell'imprenditore fu legata ad un fenomeno che poi prese il nome di '"effetto Barnum": la gente crede a ciò a cui vuole credere. Quando incontrano un desiderio, come quello dell'amore, le finzioni, anche le più grottesche, rivelano una sorprendente capacità di accreditarsi come vere presso la coscienza.

Nel 1835, per esempio, Barnum riuscì a spacciare un'anziana signora come nutrice di Washington, nato nel 1732. La voglia di credersi di fronte ad una persona così straordinaria portava la gente a tralasciare il fatto che la signora avrebbe dovuto essere ben più che centenaria, mentre non era che ottantenne.

Negli anni di Barnum, forse anche a causa dei suoi strabilianti successi, i pensatori statunitensi si esercitavano intensamente sui fondamenti della credenza. Il logico Charles S. Peirce sosteneva che, per sottrarsi all'"irritazione del dubbio", l'obiettivo dell'essere umano fosse il raggiungimento di uno stato soddisfacente di credenza; lo psicologo William James parlava analogamente di "volontà di credere", anche eventualmente contro certe evidenze.

Qualche decennio dopo, nel vecchio continente, lontano dagli ancoraggi del pragmatismo statunitense, l'effetto Barnum accreditò non le innocue gag di un circo, ma le macabre rappresentazioni dei regimi totalitari, a dimostrazione che con la volontà di credenza delle masse c'è poco da scherzare.

Oggi ogni fatto e misfatto ci viene presentato in quel gigantesco circo Barnum che è il web. Foto e filmati autentici e taroccati, opinioni di autorevoli commentatori, di anonimi blogger, di pennivendoli cialtroni, di troll e psicopatici. La volontà di credere ha davanti a sé un'offerta amplissima, esuberante, vertiginosa, senza precedenti. Forse allora, in questo circo, l'irritazione del dubbio non si potrà più lenire con le finzioni di un imbonitore, ma usando le informazioni disponibili e ragionandoci sopra. Ecco perché qualcuno vorrebbe chiudere il circo.

  • Guido |

    Non ho dubbi che le reti sociali siano destinate a cambiare i meccanismi di formazione della credenza e probabilmente anche i suoi contenuti. Questa è l’unica ‘singolarità’ che intravedo nel prossimo futuro (tra l’altro: ‘singolarità’ è proprio la parola che ho proposto a Nova per il 2010, vedi il prossimo numero). Sono assolutamente disponibile ad un incontro pubblico sul tema, sai dove trovarmi.

  • Stefano Lariccia |

    Capita che noi due si abbia una singolare sintonia sul tema del “desiderio di credere” e sull’oridne di problemi che questo può assumere nel contesto speciale della tecnologia dell’informazione: ho deciso di tenere un corso, per la facoltà di scienze umanistiche, che è basato da un lato su di un volume di Ray Kurzweil, “Singularity is near” (quello che ha inventato l’OCR e lo Speach Recognition) e dall’altra su un bel libro intitolato “Nati per credere”. Sono arrivato ad una provvisoria conclusione, infatti, in merito alla adozione delle tecnologie di comunicazione ed interopeabilità sociale: il problema è cosa si vuol credere, cosa quel popolo che in gergo chiamiamo “gli utenti” sono disposti a credere. Di norma, e almeno per adesso, non si danno casi virtuosi di masse che vogliono credere nella propria capacità di auto-governo. Nella media si da credito a qualcosa o a qualcuno che sia opportunamente e sufficientemente lontano da se stessi e dalle proprie povertà. Ho raccolto diverse evidenze a favore di questa tesi, e sono interessato a raccoglierne ancora. E’ un tema che dovrebbe esser fatto proprio da sociologi illuminati (ma io intorno a me ne vedo solo di spenti e ultrasettantenni).
    Magari potremmo parlarne in qualche occasione dal vivo, eventualmente anche organizzando un incontro pubblico sul tema.

  • Guido |

    Caro Paolo, la invito a prendere Barnum molto più sul serio.. 🙂 Grazie per ricordarci gli antichi adagi, a me piace anche quello più recente che invita a tacere su ciò di cui non si sa che dire.

  • Paolo |

    Che i totalitarismi del secolo scorso sian stati accreditati grazie a una sorta di effetto Barnum collettivo, egregio Vetere, mi pare davvero una sparata un po’ grossa a mandar giu’. Ed in ogni caso, sicuramente superficiale e riduttiva.
    Piuttosto, quello su cui varrebbe la pena ragionare un po’, credo sia come possa avvenire che nonostante l’universalita’ di questo ‘bisogno di credere’, oggi dilaghi il nichilismo, e la mancanza di fede. Non solo quella in sistemi religiosi o dogmatici, questa comincia a pesare persino su dimostrazioni e asserti ‘scientifici’… Assieme al famigerato relativismo, forse proprio a causa, come ricorda, dell’eccesso di materiale ed informazione, anche contraddittoria, oggi a disposizione. Esso diluisce e neutralizza la fattualita’, e demolisce la pretesa e la volonta’ di poter ‘credere’ in qualcosa a ragion veduta.
    Ma del piacere derivante dal possedere certezze non possiamo dubitare: e’ sufficiente osservare il beato compiacimento nel quale si crogiolano i molti ‘specialisti’ di oggi, saccenti ed esperti, dimentichi dell’antico adagio di uno tra i primi saggi dell’Occidente, che celebrava proprio quale unica certezza, quella d’ignorare.
    Cordiali saluti

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