Linguaggio e genere: ecco cosa fare

Allo schwa, quel simbolo dell’alfabeto fonetico che talunə vorrebbero introdurre per rendere più “inclusivo” il nostro idioma, va almeno riconosciuto il merito di aver sollevato un dibattito pubblico sul linguaggio. Questo però rende ancora più acuto il dolore per la mancanza di Tullio De Mauro, che cinque anni fa ci lasciò soli davanti a tale grande enigma. La leggera profondità di una sua battuta avrebbe dissolto certi toni aspri che la discussione sul genere grammaticale ha invece toccato. Se poi fosse tra noi anche il suo amico Luis Prieto, questi avrebbe certamente osservato che lo schwa, in Italia, non è candidabile come nuovo tratto pertinente (cfr. Pertinenza e pratica, Feltrinelli 1976) perché di fatto si usa già in molte regioni e non marca né il genere grammaticale né altro. La questione si sarebbe probabilmente chiusa sul nascere, invece si è arrivati a fare talk show e petizioni. Ma dal male talvolta viene il bene.
In una società orfana di pensiero siamo oggi a parlare del rapporto tra parole (morfemi, in effetti) e realtà. Linguaggio e realtà sono tangenti, diceva De Mauro, e i punti di contatto si collocano nello spazio dei rapporti sociali. Lo schwa è una proposta tecnicamente ardua e filosoficamente dubbia (cambiare la lingua a tavolino). Se è da prendere come provocazione per riflettere sul tema del sessismo nel linguaggio (questo sembra dicano lə proponentə), ben venga: anche questo situazionismo fa parte dell’uso della lingua. Ma se invece si insiste su tecnicalità votate al fallimento, come introdurre strani pronomi, o estendere una riforma dei molti suffissi nominali che marcano il genere grammaticale, o se addirittura il simbolo in questione compare in documenti della Pubblica Amministrazione come fosse un’incursione dell’antilingua burocratica (Calvino) nel territorio del “politicamente corretto”, allora la provocazione rischia di assumere i contorni di una irritante farsa.
In ogni modo, oggi ci troviamo a far caso a tutti quei pronomi (nessuno, qualcuno), quelle quantificazioni (articoli e preposizioni), quei riferimenti ai ruoli agentivi (“il Presidente deve essere una donna” (sic)) che, declinati al maschile, si riferiscono, potenzialmente, a persone di qualsiasi genere. Inutile girarci intorno: questo ha sicuramente a che fare con la condizione femminile (e le condizioni “altre”), per come si è sviluppata storicamente. Si ha un bel dire che il maschile, nel caso in cui sia “sovraesteso”, non reca la marca semantica del genere naturale, l’equivoco linguaggio-realtà si attiva, e per buone ragioni. Anche richiamare la nozione di arbitrarietà serve a poco: nessuno (notare il maschile) è tenuto a leggere Saussure. Il disagio della parola esiste ad onta della linguistica e si diffonde.
Noi, con ogni probabilità, non assisteremo a quel processo sociale che potrà portare naturalmente ad un cambiamento così profondo come la nascita di un nuovo genere grammaticale. Possiamo però fare, nella parola, qualcosa di concreto, senza collocarci fuori dalla lingua. A parte le locuzioni di esordio già ampiamente in uso (ad es. “colleghe e colleghi”) ci sono tanti piccoli accorgimenti da adottare (ne parla Cristiana De Santis qui) compatibili (o quasi) con la grammatica attuale.
Se poi proprio siamo in vena di un intervento ex lege, questo potrebbe essere, banalmente, cambiare nome al sistema flessivo che oggi chiamiamo “genere” e individuiamo come “maschile” e “femminile”. Chiamiamoli ad esempio “sistema nominale 1” e “sistema nominale 2”, sentendoci libere di usarlo creativamente. Basterebbe cambiare qualche dettaglio nei libri di scuola (cosa che comunque si fa ogni anno). Lo so: è una boutade anche questa, ma almeno si potrebbe fare.