Nòva 138 parla di ricerche di paleo-antropologia musicale che mettono in luce il ruolo della musica come primitivo rilegatore sociale, cosa peraltro ben nota agli etnomusicologi del secolo scorso. Molto interessante come tema per il ritorno al lavoro dopo la pausa estiva. Il rimo, recita una vecchia teoria, nasce infatti coi canti di lavoro.
L’estate dunque sta finendo, ma avrete certamente ancora ben presenti le canzonette balneari che ci hanno tormentato fin dal suo inizio. Passate centinaia di volte al giorno per tutte le radio, riproposte con sadica regolarità dagli altoparlanti di bar, centri commerciali, stabilimenti. Sono canzonette facili, senza invenzione, senza mai un’escursione un po’ ardita verso tonalità lontane. Si insinuano come tarli nella memoria, e continuano, nel silenzio, a corrodere la materia preziosa della nostra libertà mentale.
E’ l’effetto perverso del broadcast, è la massificazione indotta dall’infame complotto dell’industria musicale, che vuole ridurci a stupidi automi nelle mani delle major discografiche? Potremo allora liberarcene con l’uso virtuoso delle reti sociali, andando ad assaporare gusto e innovazione profusi a piene mani – e gratuitamente – nello spazio sconfinato delle nostre affinità elettive?
Io non credo. I tormentoni musicali estivi cadono come gocce d’acqua nel terreno riarso di un immanente bisogno d’ovvietà. Che non è un bisogno di conoscere, ma un bisogno di ri-conoscere. Riconoscere, assieme alla massa anonima degli altri, un luogo comune, quale che sia. E nel ri-conoscere sociale, nel vedersi tutti immersi nella stessa banale memoria, placare l’ansia ancestrale d’essere al mondo.
E l’innovazione? Nella musica c’è anche quella, per fortuna, per chi sa affrontare l’ansia sublime dell’esserci.