Assistiamo, tra fascinazione e impotenza, a quel trionfo del dato che chiamiamo Intelligenza Artificiale. La traccia di ciò che è accaduto traccia anche la direzione di ciò che dovrà accadere. Le reti neurali condensano nei loro parametri numerici la regolarità di quello che il passato ci consegna e la eterna generando futura regolarità.
La “fine della teoria” cantata dagli aedi della data science è la fine del tempo e dell’essere: il tempo è l’integrale dell’accaduto, l’essere è l’algoritmo di calcolo di questo integrale. La memoria artificiale, fattasi “intelligenza”, rende le vicende umane tutte presenti. Dunque finisce non solo la teoria, ma anche la storia.
La produzione delle merci ha sempre ridotto lo spazio di pensiero che separa i concetti dai dati, quel luogo in cui i primi divergono dai secondi. Ma che questa riduzione potesse essere automatizzata, neanche Theodor Wiesengrund Adorno poteva immaginarlo. Con l’Intelligenza Artificiale, la riduzione dell’essere a cosa diventa essa stessa una cosa, e questa cosa è una merce. Una ipermerce.
Per l’ipermerce, la reificazione si scrive all’esponente, e questo cambia profondamente l’equazione del suo valore. Ma nel momento in cui l’Intelligenza Artificiale compare sui nostri scaffali, essa si espone, come è dovuto, al discorso sulle sue qualità di cosa. Così, assieme alle reti neurali, cresce anche, come una nemesi, la loro critica. La stretta regolatoria a cui si accinge l’Europa ne è un segno tangibile.
Il marchio di conformità alla normativa europea (CE) che andrà apposto alle merci intelligenti assume così un valore simbolico che va molto oltre la tutela del consumatore. Si tratta di tutelare il pensiero come fatto distinto dalle cose. Ma il compito di realizzare quel valore simbolico spetta ora alle persone pensanti.